Il turismo pregusta la terza stagione d’oro

Grande ottimismo in Riviera dopo gli aumenti delle presenze nei classici week end di primavera. Anche le città d’arte sperano di inanellare un altro anno record. Migliorati collegamenti e trasporti grazie alla nuova legge regionale che ha istituito le tre Destinazioni. Ma monta la protesta contro la concorrenza «sleale» di Airbnb

 
La stagione estiva è ai nastri di partenza. Ed è tutto pronto,  in Emilia-Romagna, per superare il record dello scorso anno, quando le presenze furono 52 milioni e i nuovi arrivi  11,7 milioni. Nel 2016 si sono registrate un milione di notti in più trascorse nelle strutture ricettive della nostra regione rispetto ad un periodo, il 2015, definito dagli addetti del  settore come «un anno da incorniciare». Quando dopo un’estate 2014 segnata dal brutto tempo, si calcolarono un milione e mezzo di presenze in più (oltre 46 milioni, +3,2%) e 8,8 milioni di arrivi (+5,1%). Allora a fare la differenza fu il sole, ma a due anni da quella stagione da ricordare gli operatori sono fiduciosi di fare altrettanto, e anche meglio. E i primi segnali sono già arrivati durante i ponti di aprile e maggio, con il sole dieci volte su undici e  sei milioni di presenze. Secondo i dati diffusi da Trademark Italia, tra Pasqua e il primo maggio in Riviera si sono calcolate oltre 1,1 milioni di presenze e 470 mila arrivi, a cui si aggiunge la performance delle città d’arte emiliano-romagnole, con quasi 500 mila notti trascorse e 185 mila turisti che hanno effettuato il check-in in una struttura ricettiva. Tra Ravenna e Cattolica si è registrata nel weekend della Liberazione la performance migliore di tutta la primavera 2017 con un 13,6% di arrivi in più rispetto allo stesso periodo del 2016 e con un’occupazione media delle camere attorno al 68%. «La priorità, ora, è guardare avanti in vista del prossimo ponte di giugno e dell’avvio imminente della stagione estiva con l’obiettivo di confermare il trend positivo – sottolinea Andrea Corsini, assessore regionale al Turismo -. Sarà fondamentale che tutti gli operatori economici, garantendo servizi competitivi e di qualità, contribuiscano con il loro lavoro allo sviluppo turistico della destinazione regionale in un mercato sempre più complesso e ampio». Negli oltre 1600 alberghi già aperti in Riviera da Pasqua gli operatori sono fiduciosi; soprattutto chi ha approfittato degli incentivi regionali per rinnovarsi. «Se le premesse sono queste, l’estate che sta arrivando forse sarà meglio della precedente in termini di presenze. I nostri albergatori stanno lavorando bene e chi ha saputo adeguarsi ai trend del momento sicuramente potrà contare su un buon risultato _ sottolinea Patrizia Rinaldi, presidente di Federalberghi Rimini _. I tedeschi rimangono i nostri primi clienti stranieri, ma stanno aumentando anche tutte le altre nazionalità grazie ai collegamenti sempre più facili». Questo vale anche per nuove località come Bellaria Igea Marina e San Mauro Mare, fino all’anno scorso scomode da raggiungere per chi arrivava dall’aeroporto Marconi. Ma da quest’anno, grazie alla collaborazione tra gli albergatori di Turismhotels e Aia Federalberghi, sarà possibile utilizzare lo Shuttle Rimini-Bologna che collegherà tutta la Romagna, con Forlì, Cesena e le città più importanti della zona. Un’operazione che si inserisce nel panorama delle tre Destinazioni, Emilia, Romagna e Bologna Città metropolitana: i nuovi organismi costituiti in base alla nuova legge regionale 4/2016 sull’ordinamento turistico al posto delle vecchie Unioni di Prodotto istituite vent’anni fa. «Le quattro province della Destinazione Romagna l’anno scorso hanno totalizzato circa 30 milioni di presenze e 6,5 milioni di arrivi – commenta il neopresidente di Destinazione Romagna Andrea Gnassi -.  Siamo un distretto turistico naturale che già oggi potrebbe entrare nelle prime 25 posizioni delle città al mondo con più arrivi turistici. In questo quadro, l’istituzione delle destinazioni è un’opportunità nella ricerca di una nuova sintesi tra territori e prodotti turistici». L’unica nota dolente rimane un fenomeno che per molti addetti ai lavori si sta trasformando in una spina nel fianco: il successo di Airbnb. Solo nel periodo pasquale in regione risultavano disponibili, secondo i dati diffusi da Federalberghi, circa 6.178 alloggi. «Si tratta di dati che smascherano le bugie della sharing economy – sottolinea Alessandro Giorgetti, presidente di Federalberghi regionale -. Non è vero che si condivide l’esperienza con il titolare; non è vero che si tratta di attività occasionali; non è vero che si tratta di forme integrative del reddito e non è vero che le nuove formule compensano la mancanza di offerta. Vengono danneggiate tanto le imprese turistiche tradizionali quanto coloro che gestiscono in modo corretto le nuove forme di accoglienza».

Francesca Candioli

 

 

La Food Valley scopre l’export con i suoi 44 gioielli alimentari

In Emilia-Romagna il record mondiale di prodotti Dop e Igp: valgono2,5 miliardi e sono sempre più apprezzati all’estero. Volano le vendite verso Stati Uniti e Paesi Ue e con le certificazioni «kosher» e «halal» si aprono nuovi mercati in Medio Oriente

 
E’ il cuore della grande tradizione manifatturiera dell’agroalimentare italiano. Non solo per la presenza di alcuni colossi industriali del settore come Barilla. Ma anche per un primato con il quale si ritaglia un ruolo di primo piano non solo in Italia ma anche in Europa. La food valley emiliano romagnola – macro distretto che dalla Romagna arriva a Piacenza, con grandi aziende che dominano il mercato, brand conosciuti a livello internazionale e una filiera di migliaia di piccole e medie imprese – ha il più alto numero di eccellenze alimentari del vecchio continente, un record di 44 prodotti Dop e Igp che da soli valgono 2,5 miliardi di euro di produzione. E’ qui, in questa terra storicamente legata al cibo, che big e piccoli imprenditori sono diventati i principali protagonisti  dell’industria alimentare made in Italy. Una questione di storia e di radicamento di antiche tradizioni legate alla cultura alimentare capaci di generare grandi numeri e di fare del food uno dei primi settori economici della regione, con prestigiosi marchi universalmente riconosciuti come il Parmigiano Reggiano, il Prosciutto di Parma, Cirio, Valfrutta, Yoga, Parmalat, Granarolo. Ma anche una questione di innovazione, con investimenti continui nella sostenibilità della produzione e nell’adeguamento dei processi produttivi alle continue sfide imposte dalla globalizzazione. Cosa che spiega da un lato il ruolo di traino dell’Emilia-Romagna per l’industria alimentare dell’intero Paese, dall’altro la forte vocazione alle esportazioni della food valley emiliana, che insieme alla meccanica è uno dei fiori all’occhiello della manifattura regionale. Il motore dell’industria del food regionale si riconferma Parma, con una rete capillare di quasi 1.200 aziende, che salgono a circa 1.800 se si prendono in considerazione anche quelle dell’impiantistica alimentare. Un distretto che rappresenta una delle principali fonti di occupazione dell’area, con quasi 14.500 addetti, e che da solo genera un volume d’affari di 7,8 miliardi, dei quali oltre 1,5 sviluppati dalle esportazioni destinate principalmente all’Europa Occidentale – Francia, Germania, Gran Bretagna in testa – e agli Stati Uniti, ma sempre più proiettate anche verso i mercati arabi e quelli asiatici. E’ nel Parmense che hanno sede giganti dell’industria come Barilla e Parmalat. Ma anche consorzi come quello del Parmigiano Reggiano e del Prosciutto di Parma, prodotti tutelati e noti in tutto il mondo. Il solo consorzio del Parmigiano Reggiano svetta con 339 aziende associate per circa tremila allevamenti e con un valore alla produzione di oltre 1,1 miliardi e al consumo di più di 2. Per i produttori del re dei formaggi stagionati le esportazioni rappresentano già una quota del 37% sul totale della produzione. Percentuale destinata a salire con l’ingresso in grande stile nei Paesi arabi, dopo la certificazione Halal _  “bollino” che garantisce una produzione adeguata a rispondere anche alle esigenze alimentari degli osservanti islamici _ ottenuto da alcune aziende. Un investimento che segue quello già fatto sul Parmigiano Reggiano kosher, destinato ai consumatori di fede ebraica per aprire agli associati nuovi sbocchi commerciali anche in Israele. A sua volta il Consorzio del Prosciutto con la corona può contare su una organizzazione di 150 aziende tutte situate nella zona tipica di produzione, forti di un marchio registrato in 90 Paesi del mondo. Con una produzione media di 8,4 milioni di pezzi all’anno, 4mila allevamenti suinicoli, il Prosciutto di Parma genera un valore alla produzione di 740 milioni ed esportazioni pari al 32% del totale: oltreconfine gli Stati Uniti sono il primo mercato di destinazione dopo i Paesi Ue, con Germania, Francia, Regno Unito e Benelux in prima fila. Da Parma, regina incontrastata della food valley emiliana, si passa a Bologna dove ha sede un altro storico consorzio, quello della Mortadella Igp, altra eccellenza alimentare emiliana che continua a crescere sui mercati esteri. Con un fatturato complessivo di 650 milioni di euro, presidia già sbocchi europei come quelli della Francia, della Germania, della Svizzera e si muove verso gli Stati Uniti ma anche verso mercati più lontani come quello australiano. Sempre nella provincia di Bologna si trova un altro gigante del  food,  Conserve Italia, che ha chiuso il 2016 con ricavi per più di 900 milioni di euro, per il 40% ottenuti con le esportazioni. Con dodici stabilimenti produttivi, dei quali tre all’estero (tra Francia e Spagna), produce grandi marchi come Valfrutta e Cirio.

Natascia Ronchetti

Fico verso il D-day del 4 ottobre con l’handicap dei collegamenti

Tutto pronto per l’inaugurazione a Bologna del più grande parco agroalimentare del mondo, ma resta irrisolto il nodo dei trasporti per i 5-6 milioni di visitatori attesi. I numeri da capogiro dell’iniziativa: 3.000 lavoratori per 2.000 aziende, 22 investitori, 80 mila metri quadrati di superficie, 40 punti di ristoro con 16 ristoranti tematici. La promessa di Oscar Farinetti: «Faremo impazzire di gioia i turisti»

 

I nomi degli investitori ci sono già. Quelli di quaranta ristoratori di alto livello che apriranno un’attività sono stati svelati da poco. Il giorno dell’inaugurazione previsto è il 4 ottobre 2017 (San Petronio, un giorno non banale per Bologna) ma resta da risolvere il grande rebus dei collegamenti per trasportare i 5-6 milioni di visitatori annui (tra turisti italiani e stranieri) diretti all’area ex Caab. Benvenuti a Fico Eataly World, il «parco agroalimentare più grande del mondo», così come ribattezzato dal patron di Eataly, Oscar Farinetti, regista e ideatore di tutta l’operazione. La Disneyworld del cibo sta quindi avanzando verso il taglio del traguardo, in ritardo rispetto a quell’autunno 2015 indicato inizialmente (e molto ottimisticamente) come la data di fine lavori: doveva esserci il passaggio di testimone con Expo Milano 2015. Più che una staffetta è quindi diventata una maratona; ma anche le recenti visite nei cantieri aperti per la stampa e le istituzioni sembrano effettivamente confermare che questa volta l’obiettivo è quasi raggiunto. Partiamo dai numeri per spiegare di cosa stiamo parlando: 50 milioni di euro di investimenti per la realizzazione del parco grazie alla scommessa di 22 investitori tra istituzioni e privati; circa 80.000 metri quadrati di spazio dedicato ai temi dell’agricoltura, dell’allevamento e della ristorazione; 7.000 metri quadrati di colture; 4.000 metri quadrati di stalle; 9.000 di botteghe e mercati; 7.300 di ristoranti. A tutto questo si aggiungono 4.000 metri quadrati del centro congressi e 44.000 di pannelli fotovoltaici per rendere la struttura energicamente autosufficiente. E poi ecco un po’ di indotto: oltre 2.000 aziende, 3.000 lavoratori (700 quelli direttamente occupati all’interno del parco) e 500.000 visitatori professionali attesi al Caab, in via Paolo Canali a poca distanza dalla facoltà di Agraria, partner del progetto. Gli altri ad aver creduto nel sogno di Farinetti sono il Comune, Unindustria, Camera di Commercio, Coop Adriatica e Coop Reno, Confcommercio e poi banche e fondazioni.
Gli ultimi ad aver fatto visita agli stand in fase di realizzazione sono stati i rappresentanti degli investitori aderenti al Fondo Parchi Agroalimentari Italiani (Pai) accompagnati da Andrea Cornetti, direttore generale di Prelios sgr, la società che ha istituito e gestisce il fondo Pai promosso dal Caab: a guidarli nella visita il presidente della Fondazione Fico, Andrea Segrè, il direttore di Caab, Alessandro Bonfiglioli e l’amministratore delegato Fico, Tiziana Primori. Qualche settimana fa è invece stato annunciato l’elenco ufficiale dei 40 ristoratori che si sono conquistati uno spazio all’interno di Fico; tra questi, i veri e propri ristoranti saranno 16. Alcuni nomi come lo che stellato Enrico Bartolini porterà un suo  locale insieme all’associazione Le Soste, poi una divisione non per regioni italiane, ma per tematica. La Pasta, con i primi proposti dalla Trattoria Amerigo. Il Pesce che vedrà ai fornelli i fratelli Raschi del ristorante Guido di Rimini e via dicendo. Ma una delle novità più interessanti e rilevanti è stata annunciata da pochi giorni: dalla metà del 2018 la Borsa merci di Bologna si trasferirà dentro Fico con il suo laboratorio di analisi. Le quotazioni, che si svolgono ogni giovedì pomeriggio, saranno ospitate in uno spazio ad hoc e «visibili a tutti», come ha raccontato la Primori. Inoltre, grazie a un contributo della Camera di Commercio, Ager ha acquistato un’area all’interno del Caab dove si trasferiranno gli uffici collegati alle attività di vendita e quotazione dei prodotti assieme al laboratorio di analisi, che sarà costruito da zero. Nel complesso le attività di Ager si svolgeranno in un’area di 3.000 metri quadrati: così la Borsa merci troverà una sua collocazione definitiva dopo un periodo «precario» dovuto alla ristrutturazione di Palazzo degli Affari.
La presenza di Fico ha già destato nuovi interessi verso l’area del quartiere San Donato protagonista di questa trasformazione urbanistica: alcuni terreni di proprietà della Fondazione Carisbo vicini al futuro parco agroalimentare sono finiti nel mirino di investitori che vorrebbero realizzare una shopville che colleghi il centro commerciale Meraville con Fico. Poi c’è tutta la macchina della selezione del personale già in pieno movimento: dei 700 dipendenti che lavoreranno dentro la struttura, la maggior parte è stata già selezionata direttamente dagli imprenditori coinvolti nel progetto Fico. Ma  per una serie di altri profili (aiuto cuochi, barman, addetti all’accoglienza e alla vendita di prodotti enogastronomici) la Regione ha lanciato il «Piano della formazione per il parco agroalimentare Fico»: in palio sono già stati messi 11 corsi, 180 ore di teoria e 120 di stage non retribuiti nelle aziende del settore, per creare otto profili professionali differenti e formare oltre 130 allievi.
Prima di «fare impazzire i turisti», come ha promesso  Farinetti, bisogna però riuscire ad intercettarli e farli arrivare al Caab, fin fuori San Donato, a quasi 10 chilometri dalla Stazione e oltre 20 dall’Aeroporto: questo sembra attualmente il problema principale da risolvere. Di concreto finora ci sono solo otto navette elettriche di Tper; nei progetti dell’amministrazione comunale, però, c’è l’intenzione di far partire l’iter per avere un tram che colleghi Fico con la Sazione Centrale, facendo tappa in altri luoghi strategici come il Tecnopolo (anche questo in corso di realizzazione dopo anni di palude). Scartata l’idea che il People mover, la navetta veloce tra aeroporto e stazione, possa essere allungata fino alla periferia del quartiere San Donato, la strada sembra ancora in salita per assicurare un afflusso così consistente come quello promesso. Turisti pazzi sì, ma di stress, non di gioia.

Mauro Giordano

 

Nasce Confindustria Emilia, seconda locomotiva d’Italia

Con l’aggregazione delle territoriali di Bologna, Modena e Ferrara 3.200 imprese avranno una sola rappresentanza. Solo Assolombarda pesa di più in Confindustria. Rammarico per la retromarcia di Reggio Emilia. Vacchi, presidente nella fase transitoria che si concluderà nel 2018, assicura: nessun taglio e servizi migliori alle aziende

 

 

Prima la lettera d’intenti, poi il protocollo d’intesa e infine la firma davanti al notaio con la quale i presidenti delle tre associazioni degli industriali di Bologna, Modena e Ferrara hanno dato il via libera ufficiale alla fusione delle tre territoriali per dare vita a Confindustria Emilia – area Centro. Ci sono voluti quasi tre anni di gestazione per far nascere il colosso emiliano della rappresentanza industriale, sulla scia di una svolta che, come sta avvenendo in tutto il Paese, non è né indolore né automatica. Reggio Emilia ha infatti detto no all’aggregazione con Bologna, Ferrara e Modena. Vecchie ruggini, polemiche e tensioni sembrano però archiviate. “La nostra porta resta aperta”, continua a dire il presidente degli industriali modenesi Walter Caiumi, convinto che la distanza con i colleghi reggiani sulla struttura e l’organizzazione da dare alla nuova associazione non sia incolmabile. Ora toccherà al presidente di Unindustria Bologna Alberto Vacchi guidare la nuova Confindustria Emilia durante la fase transitoria prevista fino alle elezioni del numero uno, che si terranno nel 2018. Elezioni con le quali scatterà la vera e propria fase operativa. Affiancato dallo stesso Caiumi, dal presidente degli industriali ferraresi Riccardo Maiarelli, da un consiglio di presidenza costituito da 21 imprenditori e da un consiglio generale composto da 134 membri, Vacchi avrà il compito di traghettare la neonata associazione verso la funzionalità parando i contraccolpi della crisi economica ma anche quelli generati dal ridimensionamento del peso politico della stessa Confindustria a livello nazionale. I numeri con cui inizia il percorso che la porterà in piena attività sono tali da lanciarla nel Paese come seconda in Italia per dimensioni dopo Assolombarda, prima per forza del sistema manifatturiero. Parte infatti da una base di 3.200 imprese associate, l’85% delle quali sotto i 250 dipendenti, per un totale di 171 mila lavoratori. Ma soprattutto parte innestandosi su un territorio che vanta grandi brand e grandi aziende note in tutto il mondo, come le case automobilistiche e motoristiche della motor valley – da Ferrari, a Maserati a Pagani, nel Modenese, per arrivare a Lamborghini e Ducati nel Bolognese – e come i grandi gruppi che hanno disegnato i contorni della packaging valley, dove svettano big come Ima, dello stesso Alberto Vacchi, o la holding Coesia di Isabella Seragnoli. L’area Emilia che dovrà rappresentare è anche una delle locomotive dell’Italia, tra i principali distretti industriali europei, un gigante che vale 27 miliardi di export, vale a dire il 48% del totale regionale e il 6,5% di quello nazionale. La scommessa, con l’elezione del presidente, si giocherà interamente sulla capacità di dare voce agli associati con una nuova qualità dei servizi che non richieda il sacrificio di scardinare gli attuali assetti territoriali. Del resto Vacchi ha fin dall’inizio ripetuto che gli organici delle tre associazioni sono già abbastanza asciutti: non ci saranno tagli al personale, o almeno non nell’immediato. Semmai si farà leva sul turn over per razionalizzare le risorse umane a disposizione per sostenere le imprese del territorio soprattutto nell’internazionalizzazione, una delle chiavi del successo del sistema manifatturiero delle tre province, attraverso una riorganizzazione che veniva da tempo ritenuta non solo necessaria ma anche ineluttabile. Le stesse considerazioni fatte dalle due territoriali della Romagna – Rimini e Ravenna, mentre Forlì-Cesena si è sfilata all’ultimo momento e per ora resta autonoma– che hanno ricalcato le orme di Bologna, Ferrara e Modena dando vita a Confindustria Romagna. Una realtà che ha numeri più piccoli – circa 1500 aziende associate per un totale di quasi 71mila dipendenti – ma che ambisce ad aumentare la propria forza e il proprio peso politico. Entrambe le aggregazioni, alle quali potrebbe aggiungersi presto una Confindustria Medio Padana frutto delle nozze tra le territoriali di Reggio Emilia, Parma e Piacenza, è il risultato della volontà di far evolvere il sistema confindustriale per alzare il livello di qualità dei servizi offerti alle imprese.  «Da presidente di Confindustria – dice Luca Cordero di Montezemolo – ho spinto molto per queste aggregazioni: da questa regione ancora una volta sono venuti i fatti».

Natascia Ronchetti

 

In nove anni di recessione bruciato il 25% del made in Italy

Siderurgia, costruzioni e automotive i settori più colpiti. Nella prima fase della crisi penalizzate le aziende esportatrici, poi la scure si è abbattuta su quelle più legate al mercato interno. Il rischio di “messicanizzazione” se le multinazionali sceglieranno di lasciare il nostro Paese per cercare localizzazioni più competitive. L’aiuto di Draghi e della svalutazione strisciante del dollaro

 

“I fenomeni che oggi osserviamo nella siderurgia rischiano di essere gli stessi che in futuro vedremo nel resto della manifattura”. Allora come oggi sottosegretario allo Sviluppo economico, il 31 maggio 2016 Ivan Scalfarotto non utilizzò il proverbiale ottimismo dei politici, quando, ospite a Milano dell’assemblea annuale di Federacciai, commentò lo stato dell’arte di uno dei comparti industriali più controversi del Belpaese. In effetti, nella narrazione contemporanea della siderurgia tricolore sono concentrati un po’ tutti gli archetipi della recessione: la concorrenza sleale della Cina; i problemi, grandi e diversificati, delle imprese-guida (Ilva, Aferpi-ex Lucchini, Stefana, Thyssenkrupp); quella difficoltà tipicamente italica di adattarsi ai tempi che cambiano. C’era e c’è, infine, la proverbiale incapacità di fare sistema: a latere dell’assemblea persino il presidente della Federacciai Antonio Gozzi, da cui ti aspetteresti una certa affezione al laissez-faire, denunciava “il brutale spontaneismo di mercato” che presiede all’aggiustamento strutturale del settore.

E dire che, ancora nel 2011, la produzione degli altiforni tricolori era salita a 28,73 milioni di tonnellate annue, dai 25,75 del 2010; ma con il 2012, una data che ovviamente è facile associare all’estate caldissima dell’Ilva, è iniziata una paurosa discesa, infine parzialmente invertita solo dallo scorso anno. Per i primi tre mesi del 2017, il dato è di 6,1 milioni di tonnellate, che consentirebbero di ritornare, a fine esercizio, oltre quota 24 milioni. Insomma, la siderurgia appare come uno di quei settori che, tra le due fasi della double-dip recession, hanno probabilmente sofferto la seconda ancor più della prima.

L’effetto sul sistema industriale nazionale di questa recessione a doppia mandata è stato analizzato, fra gli altri, in un saggio pubblicato lo scorso anno sui Quaderni di economia e finanza della Banca d’Italia, a firma di Andrea Locatelli, Libero Monteforte e Giordano Zevi. Con il primo sprofondamento del 2008-2009, argomentano i tre analisti, hanno pagato dazio soprattutto le imprese più esposte ai mercati internazionali, che in quel periodo hanno nel complesso visto calare di oltre 12 punti percentuali la propria capacità produttiva. La crisi dei debiti sovrani datata 2011-2013, invece, ha colpito duro sulle imprese non esportatrici, quelle votate al mercato domestico (-13% di media).

Se l’acciaio nazionale, dunque, ancora vive e lotta tra mille problemi, esistono settori per cui è già lecito parlare, più che di crisi, di una vera e propria falcidie imprenditoriale e salariale. Fin troppo facile pensare al mattone. L’ultimo report congiunturale dell’Ance, il braccio edilizio di Confindustria, dice che nel 2016, lungo tutta la penisola, gli investimenti in costruzioni residenziali e non residenziali sono stati pari a 125 miliardi di euro, al netto delle spese registrate per i passaggi di proprietà. Significa un aumento dello 0,3% rispetto ai dodici mesi precedenti, prima inversione di rotta dopo anni di tonfi clamorosi, per recuperare i quali, anche qui, ci vuole tuttavia un cambio di passo molto più deciso. Perché dal 2008, dice sempre l’Ance, i posti di lavoro eliminati sono ben 600mila. Per il 2017, se le prime stime indicavano addirittura un nuovo arretramento del pil del settore, le ultime proiezioni parlano invece di un nuovo e un po’ più consistente balzo in avanti (+0,8%).

Le speranze dei costruttori sono ora affidate soprattutto alle riqualificazioni degli edifici esistenti, una di quelle formule mediatiche che in teoria mettono d’accordo tutti, perfino i sindacati, oltre ovviamente agli ambientalisti. Legambiente ha creato assieme Cgil, Cisl e Uil un Osservatorio specifico per il settore edile, che ogni dicembre partorisce un dettagliato rapporto congiunturale. “Non è uno slogan o un sogno quello di far tornare il settore delle costruzioni al peso che storicamente ha sempre avuto per l’economia e il lavoro in Italia”, si leggeva già nella Premessa all’edizione di fine 2015. “La terapia della rigenerazione può funzionare in Italia proprio perché sono notevoli i cambiamenti già avvenuti. In questi anni di crisi il settore delle costruzioni non si è infatti solo ridimensionato ma ha anche spostato il proprio baricentro verso il recupero che oggi rappresenta circa il 70% del mercato complessivo”. Dalla Triplice sindacale arrivano ampie lodi all’Unione europea, vista sia come il faro dei mutamenti legislativi che dovrebbero traghettare definitivamente l’Italia nell’era del green building; sia, ovviamente, come il primo finanziatore, soprattutto grazie al Piano Juncker. Le speranze confindustriali, più nel breve termine, passano invece per la manovra finanziaria 2017, atto d’addio del governo Renzi, che, oltre a confermare gli incentivi fiscali per gli interventi di messa in sicurezza sismica e di efficientamento energetico, ha istituito il maxi-fondo per il cosiddetto piano “Casa Italia”, con una dotazione di 47 miliardi di cui 8,5 da spendere teoricamente entro il 2019.

Di certo, l’affezione alla politica del mondo edile pare quasi patologica; a essa si aggiungono un rapporto alquanto critico con il mondo bancario e un contesto di mercato troppo simile al far West. Solo quella quindicina di big nazionali, i general contractor tricolori, nuota nell’oceano azzurro, facendo cassa grazie alle commesse estere; e pure lì, vedi le cooperative emiliane, qualcuno ha dovuto alzare bandiera bianca. La fragilità economica è qualcosa di lapalissiano, stanti queste condizioni di sistema; che, se ci pensate bene, sono pressoché le stesse del comparto dell’autotrasporto. Dove si può addirittura parlare di collasso, metaforico e purtroppo pure fisico, data la frequenza con cui l’Italia si è purtroppo abituata ai crolli di ponti e cavalcavia.

Il problema principe è che, in un contesto recessivo, nei Paesi sud-europei il giro d’affari di tutto il macro-settore trasporti e logistica diventa iperelastico rispetto al pil, mentre l’elasticità è estremamente inferiore in un panorama espansivo. Ovvero: gli studi di Confcommercio, l’ultimo dei quali presentato al Forum internazionale di Conftrasporto tenutosi in ottobre a Cernobbio, dicono che per ogni punto percentuale di ricchezza nazionale perduta, il volume di traffico merci cala addirittura del 3,5%. Dal massimo del 2007, abbiamo perso circa il 20%. La logica conseguenza è la maniacale battaglia delle associazioni di categoria per la riduzione dei costi operativi. E in una giungla quotidiana di battaglie lobbistiche continuano a spuntare muri e barriere. Persino operatori di grossa taglia non sono riusciti a sopravvivere, vedi il recente caso di Artoni, o lo hanno fatto al prezzo di pesantissime ristrutturazioni.

La metalmeccanica italiana, intanto, è alle con il fenomeno noto come la “messicanizzazione”. Tra relazioni sindacali bollenti e processi di innovazione non sempre facili da attuare, solo gli ottimisti parlano di un “cambio di paradigma in corso”, per usare un’altra formula trita e ritrita. In realtà molte multinazionali riducono o azzerano la propria presenza nella penisola, dalla Haier alla Saeco, dalla Fiat alla Ericsson. Alberto Dal Poz, vicepresidente di Federmeccanica, nel commentare l’indagine congiunturale diffusa dall’associazione per il 2016 ha ammesso che “niente sarà più come prima”, e che risulta “difficile un aumento dell’occupazione con questi tassi di crescita”. L’annata si è conclusa con un’ascesa dell’output tricolore di due punti percentuali, avvenuta tuttavia dopo trimestri altalenanti, nell’ultimo dei quali la produzione era ancora di circa il 25% inferiore rispetto al primo quarto del 2008. I posti di lavoro sono appunto scesi, quanto meno nelle aziende con oltre 500 dipendenti (-0,8%).

La morale, spiega un altro saggio di Palazzo Koch a firma ancora di Zevi e Monteforte, è che tra il 2007 e il 2013 l’Italia ha lasciato per strada, a seconda del metodo statistico impiegato, dagli 11 ai 17 punti di capacità produttiva totale. E, siderurgia a parte, a pagare pegno sono stati in particolare i comparti del carbone e della gomma-plastica (-9,3%); quello della lavorazione dei minerali non metalliferi (-20,8%); la filiera del legno e della carta (-16,9%); l’industria del cuoio e dell’abbigliamento (-18,9%). Questa è già storia economica; sulla contemporaneità, ovvero sulle ultimissime annate, l’analisi ovviamente non si spinge, ma nelle cronache giornalistiche dell’ultimo quadriennio non è difficile trovare ripetuti casi di aziende afferenti ai sopra menzionati settori alla prese con stati di crisi perduranti o incipienti. Prendete ad esempio la produzione industriale del tessile: a fine 2011, era calata di circa 15 punti rispetto ai livelli di un anno prima, livelli poi recuperati a inizio 2013; e da lì gli alti e bassi sono proseguiti. Il fatturato aggregato ha seguito una dinamica non dissimile: sceso da 54 a 46 miliardi di euro nel 2009, ha poi toccato un nuovo picco attorno a quota 53 nel 2011, e da lì ha visto un ulteriore calo, prima dell’assestamento.

E dire che, per un settore come il fashion tricolore, la Cina è una potenza amica, vista la crescente passione della sempre più folta classe media di Pechino e Shanghai per la moda italiana, considerata uno status symbol. I problemi vengono dall’Occidente, tra le incertezze dell’Unione Europea, la Brexit e l’annunciato neo-protezonismo di Trump. Altri distretti industriali, dai calzaturieri del Veneto ai pellettieri Toscana, continuano a lamentare i danni cagionati dalle sanzioni decise da Ue e Usa contro la Russia nel 2014; qualche cluster, come gli orafi del vicentino e dell’alessandrino, dipende dai venti che soffiano in Medio Oriente. Un ultimo caso interessante, piccolo ma significativo, è il distretto del mobile imbottito di Basilicata e Puglia, per decenni vissuto sulle svalutazioni della lira e che ha trovato nuova linfa nell’export verso il Nord-America quando, con il quantitative easing lanciato dalla Bce di Mario Draghi, l’euro ha cominciato a perdere terreno sul dollaro.

Le vicende del tessile-abbigliamento e degli altri comparti appena citati, in definitiva, portano ad almeno due conclusioni. La prima: una larga parte dell’Italia manifatturiera non è più in uno stato di recessione conclamata, e tuttavia vede ancora le linee dei grafici andare a zig zag, per cui è difficile parlare di vera ripresa. Secondo: gli equilibri geo-economici globali, banale dirlo, troppo spesso restano determinanti per le nostre industrie, le quali, con i cronici problemi di competitività dei fattori, non possono contare soltanto sull’asserita qualità della propria offerta merceologica. L’aiuto di circostanze esogene fa insomma ancora comodo, che si tratti delle fluttuazioni valutarie favorevoli, delle “giuste” altalene delle materie prime o di un contenimento della conflittualità armata nel mondo.

 

Nicola Tedeschini

 

Da Alitalia ad Almaviva, viaggio nell’Italia delle crisi

Sono più di 150 le grandi aziende dove sono in corso vertenze per i tagli occupazionali e la ristrutturazione del debito. In molti casi coinvolte multinazionali ansiose di delocalizzare. E torna la voglia di nazionalizzazione per evitare ripercussioni politiche.

 

Finalmente è stato varcato, l’ennesimo Rubicone della telenovela Alitalia, Alitalia-Sai anzi, come da ultima denominazione di questa sempiterna Araba Fenice _  e la metafora non è certo casuale _ del capitalismo all’amatriciana. Il 2 maggio 2017, quindi, passa agli archivi come la data della nuova richiesta di amministrazione straordinaria. E una prima analisi delle grandi crisi aziendali potrebbe partire proprio da qui, da un quadro giuridico che consente, quando non incentiva, morti improvvise e istantanee rinascite di imprese forse ormai incapaci di competere sui rispettivi mercati, che sia per l’incapacità dei manager o per altri motivi. Non a caso, dopo il primo salvataggio, il “modello-Alitalia” (di qua una bad company da mandare a morire con i debiti, di là una new company pronta a ripartire con le attività in bonis) veniva esplicitamente richiamato, un po’ in tutte le contrade del Belpaese, quando imprenditori di diversa stazza e natura sceglievano la via dei “fallimenti pilotati”.

Dal 2008, a risolvere il rebus dello storico vettore aereo nazionale, ci hanno provato prima Air France-Klm, poi la “cordata dei patrioti” messa insieme da Silvio Berlusconi e Intesa San Paolo, poi Poste Italiane. E infine loro, gli arabi di Etihad, poco più di due anni fa assestatisi al 49%, quota massima consentita dalla normativa europea. Magari, maggiore fortuna avranno i lontani cugini di Qatar Airways: nel 2016 questi, con un’operazione fotocopia, sono diventati soci dell’Aga Khan dentro il capitale di Meridiana, azienda concorrente il cui salvataggio, avvenuto anche grazie alla certosina opera di mediazione dell’ex ministro Federica Guidi, ha permesso una drastica riduzione dei 1634 esuberi dichiarati a fine 2014.

A sbarrare la strada ai possibili salvatori di Alitalia sono sempre stati o la politica (per i francesi), o  il corporativismo interno che ha portato al nefasto esito dell’ultimo referendum tra i 12300 dipendenti. E così Alitalia ha trascorso quasi un decennio perdendo a ogni esercizio contabile dai 200 milioni di euro in su, e ora la attende forse lo spezzatino, forse la Cassa Depositi e Prestiti tanto evocata da Susanna Camusso, forse qualche altro, intrepido player straniero. E non a caso per il titolo di commissario del nuovo interregno, apertosi con i famosi 600 milioni di prestito-ponte del governo che porta verso 8 miliardi il conto per i contribuenti nell’ultimo ventennio, siano stati in ballo i soliti manager, quegli habitués dei piani di risanamento di grandi aziende in dissesto più o meno conclamato.

Eh sì, perché i nomi che girano, nelle grandi crisi imprenditoriali del Belpaese, sono spesso gli stessi. La cordata dei patrioti del 2008 era composta da individui ai quali non è stata solo Alitalia a cagionare sventure. Uno è Salvatore Ligresti, ex patron di Fondiaria Sai; un altro era il lombardo Emilio Riva, scomparso nell’aprile 2014. Letteralmente padrone delle ferriere, stereotipo che incarnava perfettamente perfino nei modi, Riva era evidentemente affezionato alle privatizzazioni, perché con l’acquisto dell’ex Italsider dall’Iri il centro del suo intercontinentale impero divennero, nel 1995, le Ilva di Cornigliano e di Taranto. Certo gloria vi fu, in Puglia, ma nemmeno due anni prima di morire, Riva fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Procura tarantina per il maxi-disastro ambientale cagionato da quello che era il primo polo europeo nella produzione di acciaio. Poco c’è da aggiungere sulla nota vicenda, se non che sta in buona parte lì, in quella maxi-inchiesta penale deflagrata nell’estate 2012, la crisi dell’Ilva, che ovviamente si è intersecata alla problematica congiuntura del comparto siderurgico italiano e agli affanni macro-economici del Paese.

Infine, nel 2014, anche per l’Ilva è scattata l’ora dell’amministrazione straordinaria, affidata a una terna di commissari. Il 6 marzo, è stato l’ex ministro bolognese Piero Gnudi ad aprire, nello studio milanese del notaio Piergaetano Marchetti, le buste con le due miliardarie offerte per l’acquisto degli asset dell’azienda, che resta comunque capace di registrare oltre 2 miliardi di euro di ricavi annui. In entrambe le cordate, è segno dei tempi, un capofila indiano convive con una rappresentanza tricolore: da un lato il colosso ArcelorMittal si è alleato con il gruppo Marcegaglia, dall’altro Jindal South West si è associato ad Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cdp. La condicio sine qua non, ovvio, è il risanamento ambientale di un polo che a regime dovrebbe garantire 10 milioni annui di tonnellate di output, tra altiforni (due, forse tre) e forni elettrici. Non è per nulla chiaro, al contrario, il risvolto sui dipendenti, anche se è difficile sperare che l’Ilva del futuro necessiti degli 11mila attuali, di cui 3300 in cassa integrazione straordinaria da marzo (ma se ne potrebbero fermare presto altri).

L’Ilva era ed è, evidentemente, una fabbrica-città; del resto la formula è alquanto comune, nella siderurgia, un altro comparto sul cui declino sono state gettate colate di inchiostro. A Piombino, la vecchia Lucchini è stata traghettata verso l’Aferpi, nome che ha fin qui celato le teoriche ambizioni dell’imprenditore algerino Issad Rebrab e del suo gruppo, la Cevital. Anzi no, il traghettamento non è giunto in porto: a metà aprile il Mise ha annunciato una formale lettera di diffida verso Rebrab, che non avrebbe effettuato gli investimenti previsti dal piano di rilancio del 2015. A giorni, l’ultima mano: o Cevital rivitalizza con i contanti un impianto in cui i sindacati a inizio febbraio denunciavano “una produzione praticamente ferma”, dando concrete speranze ai circa 2mila dipendenti toscani; oppure il governo rientra in scena, con il già programmato prolungamento dell’amministrazione straordinaria e la possibile entrata in partita di altri gruppi.

Piombino, dunque, potrebbe presto contendere a un nugolo di altre piazze, spesso posizionate nel centro-sud e ancor più nelle isole, il titolo di capitale italiana della desertificazione industriale. Un’ottima candidata è la sarda Portovesme, dove nel 2012 l’Alcoa, due anni prima di abbassare la saracinesca, aveva spento quelle celle elettrolitiche di cui oltre 700 lavoratori attendono ancora oggi la riattivazione. Gli americani hanno regalato lo stabilimento a Invitalia, l’agenzia statale per l’attrazione degli investimenti esteri, che ha circa un anno per evitare lo smantellamento: dopo le interlocuzioni con colossi dell’alluminio come Glencore, le speranze maggiori sono ora riposte in un altro gruppo svizzero, la Sider-Alloys. Ma nel Sulcis delle miniere ormai esauste è tutta la filiera a soffrire, e in quella filiera sta l’Eurallumina: i suoi 300 lavoratori, la riaccensione, la attendono da un migliaio di giorni. Prima c’è da convincere gli ultimi proprietari, i moscoviti della Rusal, che l’energia arriverà a buon mercato, una missione affidata a una società della Regione, la Sfirs.

In breve, una costante delle crisi aziendali dell’industria pesante è che la Seconda Repubblica, ossia l’era delle privatizzazioni, non ha mai veramente funzionato. Tanto che, quando non invoca direttamente l’onnivora Cdp, come nel caso di Alitalia, la politica affida le speranze di rilancio alle sue sorelle o sorellastre, da Invitalia alle finanziarie di sviluppo regionali. I sindacati volentieri si accodano, in una reiterata professione di nostalgia verso i tempi dell’Iri e dello Stato imprenditore, che dominava la scena manifatturiera assieme a un manipolo di colossi privati avvolti all’establishment politico. Era inevitabile che questo sistema andasse in crisi quando c’era finalmente da confrontarsi con il libero mercato, e quando non era più ammissibile gettare fondi a pioggia nei salvataggi. Nella sicula Termini Imerese, per esempio, il progetto Bluetec non ha finora colmato il vuoto lasciato in quasi 1900 lavoratori da una Fiat che con Sergio Marchionne ragiona da vera multinazionale e non più da azienda assimilabile a una vecchia municipalizzata.

Non sono poche, le multinazionali il cui rapporto con l’Italia, presto o tardi, viene a deteriorarsi. Tra i 145 tavoli di confronto aperti al Ministero dello Sviluppo economico a giugno 2016, le imprese estere ne occupavano parecchi, dalla svedese Ericsson (che ha recentemente aperto la 14esima procedura di licenziamento collettivo, solo in questo caso per oltre 300 persone) su su fino alla connazionale Electrolux (che nella Penisola è di fatto in ristrutturazione da quasi una decade: oggi il gruppo ha qui 4500 dipendenti, per una parte dei quali scade quest’anno il piano anti-crisi del 2014). Se siete quelli del “mal comune mezzo gaudio”, noterete che il problema non tocca solo il Belpaese: Whirlpool ha appena conquistato la scena della campagna elettorale in Francia, con i fischi degli operai a Emmanuel Macron e gli applausi a Marine Le Pen. D’altra parte, la Whirlpool è la stessa azienda che in Italia ha sì ristrutturato pesantemente i siti produttivi, ma da gennaio ha pure rilocalizzato nel sito campano di Carinaro quelle catene di montaggio prima installate in Cina e Polonia.

Eh sì, perché pure in Italia il reshoring, almeno a parole, esiste. Prendete la Natuzzi, regina dei divani di Santeramo al Colle, capofila di uno dei tanti distretti industriali nazionali che hanno finito per auto-fagocitarsi, consegnandosi al lavoro nero selvaggio, a imprese fantasma da capo a piedi anzi, con un semi-invisibile contro-distretto in cui la lingua ufficiale è il cinese. La nausea da montagne russe della globalizzazione ha partorito i quasi 1700 esuberi annunciati da Natuzzi nel 2014, ma la cifra è stata poi ridotta dell’80%, perché dopo una trattativa-fiume al Mise lo storico patron Pasquale Natuzzi ha promesso di riportare in patria dalla Romania la fabbricazione di 33mila divani, nonostante l’almeno apparente gap di competitività nelle paghe orarie. Uno degli ultimi colpi di scena è stato quando, un anno fa, Natuzzi ha iniziato un road show lungo tutto il Meridione, offrendo un incentivo di 12mila euro per ciascuno dei suoi 340 cassaintegrati riassunti da imprese terze.

Quindi sì, è vero, il Sud soffre particolarmente, ma ha pure la capacità di rialzarsi dalle proprie cadute. Il Pastificio Rummo di Benevento, oltre 170 anni di storia alle spalle, è stato colpito duro dall’alluvione del 2015; e però, anche con un uso intelligente dei social network, ha trasformato i rovesci in un modo per incassare la solidarietà e il favore commerciale degli italiani, e a inizio aprile ha incassato il primo via libera della magistratura al concordato preventivo che dovrà ristrutturare i 97 milioni di debiti e salvare 130 famiglie. Il Sud, al momento, è anche uscito quasi indenne dalla vertenza Almaviva Contact, i cui dipendenti palermitani hanno nondimeno manifestato in prima fila al raduno nazionale per la Festa dei lavoratori di Piana degli Albanesi.

Contesto privilegiato di opere cinematografiche e letterarie sull’imperitura precarietà giovanile, il settore del customer care soffre notoriamente l’esasperazione delle gare al massimo ribasso, sovente ben oltre il dumping, e la parossistica tendenza alle delocalizzazioni; fenomeni che, nondimeno, non devono offuscare il pericolo della crescente disintermediazione digitale. Erano 2988, gli esuberi dichiarati da Almaviva a marzo 2016, sparsi tra Roma, Napoli e il capoluogo siculo. Il 31 maggio, a un passo dal realizzarsi brutalmente, i licenziamenti parevano sventati, grazie a un accordo mediato da Teresa Bellanova, sottosegretaria al Mise, e sottoscritto da tutti i sindacati confederali. L’intesa prevedeva diciotto mesi di ammortizzatori sociali, in attesa di un auspicato incremento dei volumi di lavoro. Ma in autunno ecco il nuovo choc: una seconda dichiarazione di oltre 2511 esuberi, che secondo le cronache l’azienda avrebbe poi addirittura giustificato con l’esito del referendum costituzionale.

Da lì, la vicenda ha assunto aspetti ancor più singolari, perché per le tre sedi coinvolte gli esiti della vertenza sindacale sono stati diversissimi. Se a Palermo 700 dipendenti su oltre 3mila sono ancora con il fiato sospeso, tra l’annuncio di nuove commesse e il trasferimento di un drappello dentro il concorrente Exprivia, a salvarsi in pieno è stata per ora Napoli: lì i lavoratori hanno accettato la cigs al 70%, un taglio del Tfr e un congelamento degli scatti di anzianità; in cambio, udite udite, di una compartecipazione agli utili una volta che si ritorni eventualmente alla redditività.

La crisi, a volte, rinforza la tolleranza dei sindacati e la creatività dei manager, che certo servirà in dosi massicce nella Capitale, dove invece la serrata ha lasciato a piedi 1666 persone, in buona parte 40-50enni con titoli di studio rilevanti. Per loro non c’è nemmeno il conforto della magistratura del lavoro di Roma, che il 22 aprile ha rigettato il ricorso presentato dalla Slc-Cgil contro i licenziamenti unilaterali. Il governo, per bocca del ministro Poletti, e la Regione Lazio hanno promesso di trasformare Almaviva Roma in “un laboratorio per un intervento coordinato” volto a un felice turnaround occupazionale. Significa, in pratica, mettere in campo degli incentivi per avviare i neo-disoccupati all’auto-imprenditorialità o alla mobilità territoriale. Bello a dirsi e difficile a farsi, perché non è che tutti i disoccupati possano cambiare città con uno schiocco delle dita o ripartire fondando una start up.

 

Nicola Tedeschini

 

Per le partecipate degli enti locali comincia una nuova Hera

Mentre la riforma infinita delle pubbliche amministrazioni sembra prossima al traguardo, Rimini vende la “quota libera” della multiutility (il grosso è vincolato fino al giugno 2018 nel patto di sindacato). È loccasione per un bilancio del riassetto e delle razionalizzazioni annunciate, ma in gran parte ancora sulla carta

 

Più che la legge, potrà il bisogno. Il bisogno di liquidità, l’urgenza di ridurre la spesa, soprattutto dei Comuni. La legislatura è trascorsa tra un annuncio e l’altro dell’imminente riordino delle partecipazioni societarie degli enti pubblici, attraverso cessioni, liquidazioni, riduzioni, razionalizzazioni di migliaia di partecipazioni azionarie. Governo, Parlamento e Regione hanno proposto e approvato piani e norme; ognuno, però, al momento di passare all’azione, ha ceduto il passo per guadagnare tempo: “prego, prima lei”; “non sia mai, dopo di lei”. Di concreto si è visto poco. Subito dopo Pasqua, invece, il Comune di Rimini ha annunciato la cessione di 3,7 milioni di azioni Hera. Solo una piccola quota – il 15% – delle oltre 24 milioni di azioni possedute attraverso Rimini Holding, pari all’1,6% del capitale sociale della multiutility; quota che ogni anno vale 2 milioni di euro di dividendo.

Il Comune di Rimini ha bisogno di liquidità, e la cessione porterà in cassa, al netto dei costi dell’operazione, nove milioni di euro. Un paio serviranno a ridurre la quota residua del mutuo di Rimini Holding con Monte dei Paschi di Siena, garantito dal Comune, sottoscritto proprio per ripianare debiti pregressi. Il resto sarà conferito al Comune come dividendo straordinario, probabilmente accresciuto dalla liquidità di cui la holding dispone. Sarà utilizzato per varie opere pubbliche, in particolare per alcune stazioni del Trc, il trasporto rapido di costa, in costruzione da 5 anni: una sorta di metropolitana fra Rimini e Riccione, che un giorno si prolungherà da un lato verso la Fiera di Rimini, dall’altro verso Cattolica.

Ma perché, se Rimini ha bisogno di liquidità, vende appena un sesto della partecipazione di Hera, la multiutility che ha superato da tempo i confini regionali, è un colosso da 2 miliardi e mezzo di patrimonio netto, in 5 anni ha moltiplicato di oltre due volte e mezzo la quotazione di borsa, e oggi capitalizza 4 miliardi di euro? Perché di più, per un anno ancora, non può vendere. O quasi: avrebbe potuto arrivare a 5,5 milioni, la cosiddetta “quota libera” dal patto di sindacato, che impedisce ai soci, fino al 30 giugno 2018, di cedere la partecipazione. Proprio nel 2015, quando si cominciò a parlare seriamente di ridurre le partecipazioni degli enti locali, e Bologna sembrava dovesse fare da capofila per la cessione delle azioni Hera possedute dai comuni emiliano-romagnoli, avvenne una clamorosa marcia indietro, e fu addirittura rinnovato per tre anni il patto di sindacato fra 118 soci pubblici, possessori del 51,3% del capitale sociale.

Alcuni soci possiedono ulteriori quote rispetto a quelle conferite nel patto di sindacato, perciò si parla di “quote libere”: nel luglio 2016 ne sono state vendute per oltre l’1% del capitale, da 12 comuni. In realtà, anche per enti locali indebitati e a corto di liquidità, il possesso di Hera non rappresenta affatto una delle tante partecipazioni inutili o dannose. Anzi, è un investimento “sicuro”, che ogni anno si rivaluta e genera interessi in forma di dividendi. Da tempo Hera è gestita secondo i criteri di efficienza propri di un’azienda privata.

Il vero problema, semmai, è quello delle aziende in house, che svolgono servizi per conferimento diretto e non attraverso una gara. Questo tipo di società, nei decenni scorsi, ha consentito ai comuni di acquisire competenze e specializzazioni, ma non l’efficienza necessaria per sopravvivere senza generare perdite. Piccoli monopoli locali che, anche in caso di buona gestione (esempi non mancano) e in assenza di malversazioni, non conoscono il significato della parola concorrenza. Lì sta il vero nodo, lì si gioca la credibilità delle intenzioni, la differenza tra chi farà sul serio e chi spera di cavarsela con l’ennesimo maquillage.

Il riordino è un tassello della riforma delle pubbliche amministrazioni, la cosiddetta legge Madia 124 del 2015, che era stata anticipata – per quanto riguarda le partecipate degli enti pubblici – dalla legge di stabilità dello stesso anno e dal censimento del commissario alla spesa pubblica, Carlo Cottarelli. Ma i due anni necessari per la più ambiziosa “grande riforma” hanno paradossalmente bloccato il processo. Quando sembrava tutto pronto (ma non tutto ben fatto) la Corte costituzionale, lo scorso autunno, è intervenuta – accogliendo il ricorso del Veneto – contro la legge delega, e indirettamente contro i decreti delegati nel frattempo adottati dal governo. La Corte ha bocciato il centralismo della riforma, che considerava adempiuti i doveri di leale collaborazione tra governo ed enti locali, con una semplice consultazione da parte del governo anziché con una più impegnativa intesa Stato-Regioni, nelle materie di cosiddetta competenza concorrente.

Così è stato necessario correggere tutti i decreti delegati della riforma, acquisire l’intesa Stato-Regioni e sottoporre le modifiche al parere del Parlamento e del Consiglio di Stato. Solo il 3 maggio scorso Camera e Senato hanno licenziato il parere sulle società controllate dagli enti locali, in questo caso riducendo un po’ il potere riconosciuto al presidente della Regione di discostarsi dai criteri fissati per legge, e dichiarare una partecipazione strategica, e perciò intoccabile, senza doverne rendere conto a nessuno. L’ultima parola su questa deroga, che sarà probabilmente ridimensionata, spetta ora al governo.

I criteri per lo sfoltimento delle partecipate sono del resto noti da tempo, e comportano, tra l’altro, la liquidazione o l’accorpamento delle partecipazioni in cui i dipendenti siano in numero inferiore agli amministratori, o la cui attività si sovrapponga a quella di altre partecipate, o i cui ricavi nell’ultimo triennio siano stati inferiori al milione di euro, ovvero i bilanci siano stati in perdita in quattro degli ultimi cinque anni.

Subito dopo le elezioni regionali dell’autunno 2014 l’Emilia-Romagna ha iniziato ad occuparsi del riordino (almeno sulla carta) delle partecipazioni, avvalendosi del Libro bianco sui quattro pilastri della governance, elaborato dal dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bologna. A primavera 2016 ha presentato il piano. La Regione ha partecipazioni rilevanti in sette società in house e possiede quote (talvolta marginali) in altre diciassette società, aeroporti e fiere comprese.

Il piano prevede la riduzione da 7 a 4 delle società in house, con due accorpamenti e la riqualificazione degli obiettivi societari; una sola dismissione marginale e un risparmio stimato in 5 milioni di euro l’anno. Cup 2000 e Lepida, accorpate, dovranno sviluppare l’Ict regionale (le prenotazioni del servizio sanitario saranno svolte da un consorzio fra le stesse Ausl); Ervet e Aster si occuperanno di ricerca industriale e attrazione degli investimenti. Ma far quadrare i conti non sarà facile: Apt Servizi resta intatta, e il suo marketing territoriale al servizio degli operatori turistici è finora costato alla regione (socio al 50% ma contributore unico) 10 milioni di euro l’anno; la rete ferroviaria regionale gestita da Fer, quasi interamente posseduta, assorbe oltre 100 milioni di euro l’anno.

Delle partecipazioni ordinarie ne resteranno una decina. Due sono già state liquidate, per altre cinque si provvederà. Ma si tratta di quote piccole, dai centri termali a quelli agro-alimentari, incluso il Caab di Bologna, nonostante il suo coinvolgimento nel parco agroalimentare Fico, la cui inaugurazione è prevista in autunno. Delle dieci sopravvissute, uno è il gestore del trasporto regionale Tper, al quale la regione versa un contributo di 6 milioni di euro l’anno. Quattro partecipazioni minori riguardano le fiere di Bologna, Parma, Piacenza e Rimini, con l’obiettivo però di un’unica holding che gestisca tutti i quartieri fieristici. Un’ipotesi antica e faticosa, finora impedita dai campanili.

Al di là del ruolo di coordinamento della Regione, quando si parla di fiere, aeroporti o multiutility, le partecipazioni che contano sono sparse tra i comuni, talvolta le province, spesso le Camere di commercio. Perciò bisogna tornare al censimento del commissario Cottarelli, che in Emilia-Romagna contò 714 partecipazioni degli enti locali, 183 delle quali in società non operative, o con un patrimonio netto negativo o pari a zero, o delle quali fossero ignote (almeno a Roma) attività e bilanci. Di 531, invece, si conosceva quasi tutto, ma era quasi impossibile confrontarle, per la totale disomogeneità delle dimensioni, delle quote, dell’attività. Basti dire che si va dai 700 euro di patrimonio netto della coop di consulenze turistiche di Castrocaro (capace tuttavia di perdere in un solo anno il quadruplo del patrimonio) ai patrimoni miliardari delle multiutility quotate: la già ricordata Hera e la poco più piccola Iren. Proprio la partecipazione a questi due colossi, tuttavia, ha alimentato la proliferazione di piccole holding finanziarie prive di dipendenti, con l’unico scopo di incassare i dividendi, reinvestirli in azioni o altri titoli, oppure girarli al comune.

C’è poi l’intricata foresta delle forniture di servizi, dalle attività di assistenza, a quelle educative, culturali, di promozione turistica o agroalimentare, e perfino di ricerca scientifica. L’efficienza non è una rarità, ma neppure rappresenta la regola. Le 531 società, cooperative e consorzi dei quali erano noti i bilanci (il 10% di quelle censite in Italia), sono state suddivise in quattro fasce dimensionali in base al patrimonio netto, i cosiddetti “mezzi propri”: fino a 10mila euro, da 10 a 100mila, poi fino al milione di euro, infine oltre il milione. Il dato patrimoniale è stato incrociato con i ricavi netti (o la perdita) per elaborare il Roe (Return on Equity), l’indicatore di efficienza rappresentato dal rapporto percentuale fra il risultato economico e l’investimento.

L’elaborazione mostra che le inefficienze più diffuse si trovano nelle realtà più piccole. Le 144 partecipazioni nelle prime due fasce di patrimonio netto, e cioè fino a 100mila euro, generano perdite superiori ai 335mila euro, con un Roe negativo del 5,7% (che crolla al -35% per la fascia fino a 10mila euro di patrimonio netto).

Le 157 società della fascia fra 100mila e 1 milione di euro generano invece ricavi netti per 1,6 milioni di euro, ma l’indice di efficienza è abbastanza contenuto (2,6%). Lo stesso indice è quasi doppio (4,7%) fra le 230 imprese con un netto patrimoniale superiore al milione di euro (in totale 10,5 miliardi) il cui risultato complessivo supera il mezzo miliardo di euro. Un drappello di 20 società, di tutte le dimensioni, è stato capace di bruciare in un solo anno l’intero patrimonio netto o addirittura un suo multiplo fino a 7 volte.

Per altre 110 il Roe è negativo, ma non superiore al 100%. Tre società emiliano-romagnole, due delle quali parmigiane, sono fra le venti con maggiori perdite in valore assoluto: Stt, anziché valorizzare il territorio ha perso 28 milioni di euro con un Roe negativo prossimo al 500% (ma l’anno successivo è tornata in utile); Parma Infrastrutture dovrebbe gestire il servizio idrico, invece prosciuga risorse: -23 milioni di euro in due anni (Roe -22%). Alle 135 partecipate in sostanziale pareggio ne corrispondono 147 con un Roe compreso fra l’1 e il 10 per cento, mentre un gruppo consistente, 119 partecipate di tutte le dimensioni, supera il 10% nel rapporto fra risultato e patrimonio netto.

Angelo Ciancarella

Guerra delle Fiere, contro Milano l’asse Bologna-Parma-Verona?

Allo studio un’alleanza strategica fra i tre poli padani che assicuri la supremazia nelle manifestazioni internazionali  legate all’agroalimentare. Ma sotto le Due Torri non si risolve il duello fra soci pubblici e soci privati sul controllo della società, in vista dell’aumento capitale: un altro  intralcio per il piano si ristrutturazione e ampliamento del quartiere.

 

Alleanze strategiche, il piano di restyling e ingrandimento dei padiglioni, ma anche le divisioni che continuano a lacerare il consiglio di amministrazione, costretto a vivere altalenanti tensioni tra i soci pubblici e privati. BolognaFiere è impegnata su queste tre fronti, tentando di superare i problemi che hanno minato il secondo polo fieristico italiano e trascinato nella crisi alcune manifestazioni simbolo, come il Motor Show.
La più grande novità dalle parti di via Michelino riguarda l’ipotesi di un matrimonio con Verona, che metterebbe assieme la seconda e la terza potenza nazionale in ambito fieristico: un’unione in grado di impensierire Milano, da tempo diventata il «cannibale» del settore. Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, e quello di Verona, Flavio Tosi, non hanno escluso la possibilità dell’unione, anzi, l’hanno quasi pubblicizzata. E più che possibilista sembra essere anche il numero uno della fiera bolognese, Franco Boni, che però sarebbe pronto a lavorare all’integrazione Bologna-Verona quando sarà confermato alla guida dell’ente: la risposta dovrebbe arrivare entro fine maggio, quando ci sarà un’assemblea di bilancio dal quale dovrebbe arrivare l’ok alla sua riconferma, già chiesta a gran voce da più di un socio. La trama che corre lungo l’Emilia e il Veneto ha un intreccio anche a Parma, altra realtà da tempo in fase di corteggiamento con Bologna per creare almeno la prima tappa di quella holding unica regionale tanto desiderata dal presidente della Regione Stefano Bonaccini: dal progetto sembra invece essersi ormai sfilata Rimini che, ironia della sorte, sempre in Veneto ha trovato la sponda per la crescita futura, fondendosi con Vicenza. L’asse a tre Bologna-Parma-Verona potrebbe però rappresentare un vero attore di primo livello internazionale, puntando in particolar modo sull’agroalimentare, settore nel quale l’Emilia-Romagna ha deciso di fare la voce grossa. Basta citare Vinitaly (Verona), Cibus (Parma) e i saloni bolognesi come Marca, Sana e Eima per capire il grande potenziale che la nuova realtà potrebbe avere in quel ramo, raccogliendo l’eredità dell’Expo milanese e puntando le lancette al 4 ottobre 2017, quando dovrebbe fare il proprio esordio sotto le Due Torri l’attesissimo progetto Fico, definito «Disneyworld del cibo», che già può contare sull’adesione di 40 ristoratori pronti ad occupare nuovi spazi oltre agli stand enogastronomici previsti. Passando ai fatti, le prime ipotesi avanzano la possibilità che in una futura società Bologna pesi il 60% e Verona il 40%, mentre tra via Michelino e Parma l’integrazione passerebbe da una serie di passaggi di quote che porterebbero le Due Torri nella città Ducale e viceversa.
Detto delle possibili alleanze, c’è da registrare anche il super utile da 6 milioni di euro previsto nel budget 2017, il più ottimistico dal 2010 a oggi per via Michelino. I numeri sono stati presentati nel primo cda riunitosi dopo l’aumento di capitale che ha riportato la Fiera in mani pubbliche. Questi temi permettono di  affrontare il secondo argomento che tiene banco ormai da mesi, ovvero il braccio di ferro tra soci pubblici e privati, che ha portato alla fine di marzo al ritorno di BolognaFiere in mano pubblica attraverso un aumento di capitale sottoscritto interamente dai primi, anche attraverso il conferimento alla società BolognaFiere di Palazzo degli Affari (della Camera di Commercio) e Palazzo dei Congressi (dal Comune). I soci privati, insomma, sono rimasti sull’Aventino a causa di uno Statuto che privilegia i pubblici e che questi ultimi non sono disposti a rivedere. Così mancano all’appello sette dei 20 milioni cash necessari per supportare il piano di investimenti pluriennali da 140 milioni in programma.
Ed eccoci al terzo capitolo dell’attuale storia di BolognaFiere, considerando che la crisi sindacale vissuta fino a poche settimane fa sembra essersi chiusa con la rassicurazione di non avere esuberi in via Michelino. La terza partita aperta riguarda, appunto, il restyling e l’ampliamento dell’area espositiva a 140.000 metri quadrati: un’operazione che ha permesso di salvare la permanenza a Bologna di Eima, che a lungo ha minacciato di emigrare a Milano per soddisfare l’esigenza di un quartiere fieristico dalle capacità maggiori. Il progetto di revamping del quartiere bolognese dovrebbe portare diverse migliorie e ampliamenti. Ma sono sorte nuove perplessità in merito ai cantieri del Passante di Mezzo, l’allargamento in sede della tangenziale bolognese che rischia di pregiudicare i lavori per i nuovi accessi a via Michelino. Anche su questo argomento non sembra quindi esserci un orizzonte privo di nubi dopo anni di attesa.

Mauro Giordano

Investimenti & turismo: è «Welcome China»

Sono già 14 in Emilia-Romagna le aziende controllate da capitali cinesi. Ma si attende un vero boom di investimenti e di visite di piacere nei prossimi anni, tanto che la Regione lancia un programma di accoglienza su misura per i viaggiatori provenienti dal Celeste Impero. In prima fila l’Aeroporto Guglielmo Marconi

E’ il secondo maggiore investitore del mondo subito dopo gli Usa e prima della Germania e del Giappone. Ma è anche il Paese – immenso – da dove arrivano le più importanti opportunità di sviluppo per il turismo europeo e per quello italiano. Anche per l’Emilia-Romagna la Cina costituisce, e non da ora, una grande scommessa. Non solo per quanto riguarda gli investimenti nel sistema manifatturiero ma anche per l’industria delle vacanze. Tanto che Bologna, prima in Italia, ha voluto adeguarsi agli standard  di servizio previsti dalla certificazione Welcome Chinese, dotandosi di un “bollino”  di qualità che garantisce una città a misura di turista cinese, dalle indicazioni segnaletiche all’arrivo all’aeroporto Marconi (tradotte in ideogrammi), a vari servizi come l’acqua calda gratuita per il tè e i terminali Pos collegati a Union Pay. Qualche numero aiuta a capire perché il capoluogo emiliano ha puntato sul sodalizio con la China Tourism Academy, emanazione del ministero del Turismo del gigante asiatico. Nel solo 2016 i cinesi che hanno visitato l’Europa e il resto del mondo sono stati 122 milioni e i loro consumi hanno raggiunto la quota di quasi 110 miliardi di dollari. Una capacità di spesa che tende progressivamente ad aumentare così come le presenze turistiche targate Cina che, nel mondo, sono destinate a moltiplicarsi nei prossimi cinque anni fino a raggiungere i 700 milioni, come è previsto dalle proiezioni statistiche che fanno del Paese asiatico una delle più importanti occasioni per lo sviluppo del turismo anche in Italia e in Emilia Romagna. Una vera e propria avanzata che va di pari passo con gli investimenti che le grandi compagnie pubbliche e private della Cina da anni stanno realizzando lungo la via Emilia, dove sono già 14 le aziende la cui proprietà ha cambiato bandiera e che oggi hanno come punto di riferimento metropoli come Pechino, Shanghai, Hong Kong. Tra le acquisizioni più rilevanti basta ricordare il passaggio di mano di uno dei gioielli internazionali della nautica di lusso, Ferretti Yachts di Forlì, da alcuni anni sotto il controllo del gruppo Shig- Weichai, che con una operazione da 374 milioni di euro ha rilevato il più importante produttore italiano di imbarcazioni di altissima gamma. Si sono da poco sfilati da Omas, lo storico marchio bolognese delle penne di alta qualità, i cinesi di Xinyu Hengedeli, base a Hong Kong, che nella ricerca di brand del lusso affermati a livello globale hanno negoziato con la multinazionale francese LVMH (Louis Vuitton) per incamerare uno dei portabandiera della produzione di nicchia made in Italy di massima qualità. Il big cinese Foton Lovol Ltd, colosso asiatico della meccanica agricola, è invece ai posti di comando di Goldoni Spa, l’azienda di Migliarina di Carpi, nel Modenese, che, fondata nel 1926, ha contribuito a scrivere la storia della produzione italiana di trattori con il marchio Universal. Per Foton Lovol, che aveva già rilevato anche un altro storico brand del settore in Emilia Romagna – il marchio piacentino Arbos – il radicamento in Emilia Romagna costituisce il trampolino di lancio per l’espansione nell’Europa Occidentale, in America del Sud e in Africa. Parla cinese anche un altro pezzo pregiato dell’industria reggiana ad alto contenuto di innovazione, la Meta System, che produce prodotti elettronici destinati al settore dell’automotive. L’azienda, che ha due stabilimenti produttivi (oltre a quello di Reggio Emilia, quartiere generale, dispone di una fabbrica a Mornago, in provincia di Varese), è passata sotto il controllo di un altro big cinese, il gruppo Deren, intenzionato a fare dell’Emilia la base per una crescita nell’Occidente capace di portare il fatturato di Meta System a 400 milioni entro il 2020, con un forte investimento sul reparto R&S.  La Cina, impegnata in una profonda riforma del sistema sanitario, sta inoltre mostrando interesse anche per il distretto biomedicale di Mirandola, nel Modenese, uno dei più importanti cluster europei del settore. Interesse che, insieme a numeri in costante incremento,  dà conto delle potenza della Cina, grazie all’aumento del reddito medio della popolazione,  anche nel turismo. Con il Welcome Chinese, Bologna è diventata per i cinesi una delle principali porte d’accesso all’Italia, un Paese che, come ha spiegato l’ambasciatore  Li Ruiyu, parte da una rendita di posizione: è particolarmente noto in Asia per il ricco patrimonio artistico e culturale, per la moda e  per la spessa tradizione enogastronomica. In particolare, con l’accordo, l’aeroporto Marconi è adesso il secondo scalo in Italia certificato dopo quello di Fiumicino, e il quarto in Europa, dopo Parigi e San Pietroburgo. Con la certificazione Bologna parlerà cinese non solo nel terminal aeroportuale, ma anche nei ristoranti, nei musei e negli alberghi.

Natascia Ronchetti

 

Nuova legge urbanistica regionale, ultimo duello sul consumo zero

Inizia il dibattito in aula. Regione, imprese e sindacati difendono il principio della flessibilità, della semplificazione e dello sviluppo «moderato». Rigenerazione urbana e  riqualificazione edilizia gli obiettivi. Ma le opposizioni vorrebbero il blocco totale delle nuove costruzioni per preservare il territorio vergine.

Per gli oppositori _ estrema sinistra, gran parte dei movimenti ambientalisti, Movimento Cinquestelle e qualche urbanista storico come Pierluigi Cervellati _ siamo alla deregulation selvaggia o giù di lì. Una legge «regressista» che favorisce la «finanziarizzazione immobiliare» e «abbandona il dato sociale». Per la Giunta dell’Emilia-Romagna, che ha appena licenziato il progetto di legge urbanistica regionale, si tratta invece di «un buon punto di sintesi fra sostenibilità e sviluppo», come ha dichiarato l’assessore alla programmazione territoriale Raffaele Donini, «padre» della nuova normativa. Sulla stessa linea tutti i sindacati, l’Istituto nazionale di urbanistica, tutti i comuni, gli ordini professionali e le rappresentanze degli imprenditori, Ance in testa, che hanno discusso il documento per oltre due mesi e alla fine l’hanno approvato nelle sue linee generali. Il principale oggetto del contendere è il consumo di suolo. I contestatori vorrebbero lo stop totale, cioè il consumo zero. La nuova legge riconosce invece una «quota 3%» entro cui saranno concessi interventi «capaci di sostenere lo sviluppo» ma non abitazioni «se non funzionali alla rigenerazione urbana o di edilizia sociale». Tuttavia l’espansione urbana effettiva potrebbe essere superiore, in parte per le deroghe concesse su alcune tipologie di intervento, in parte per i tempi lunghi (3 anni) dell’entrata a regime del vincolo, periodo durante il quale potranno essere completati i progetti pregressi senza incidere sul parametro, in parte, infine, per le possibilità di addensamento edilizio all’interno delle aree giù urbanizzate. Ma ci sono novità anche più rilevanti: un ridisegno delle procedure che, secondo l’assessore, «semplifica e velocizza» gli iter autorizzativi, un approccio ai nuovi progetti edilizi più flessibile, un insieme di incentivi per promuovere rigenerazione urbana e riqualificazione degli edifici. L’idea forza della legge, infatti, è contenere il consumo di aree vergini, in particolare quelle agricole, per incoraggiare invece il riuso di quelle già urbanizzate ma degradate o abbandonate. Su queste idee guida, dice Donini «abbiamo già raggiunto una buona base di consenso». Tuttavia, aggiunge, «abbiamo pensato a tanto ma non pretendo di aver pensato a tutto»; quindi c’è disponibilità a miglioramenti durante la discussione in commissione e poi in assemblea dove la legge è approdata all’inizio di febbraio con l’obiettivo di ottenere l’approvazione definitiva entro l’inizio dell’estate. «Se in consiglio arrivassero buone idee _ aggiunge l’assessore _, soprattutto in merito alle politiche di incentivazione e premialità della rigenerazione urbana, saremmo ben felici di discuterle. Non accetterò invece di riaprire il dibattito sul consumo zero di suolo perché mantenere un 3% di margine allo sviluppo è una scelta politica che confermo e difendo». Le pressioni per eliminare dal testo gli ammorbidimenti e la flessibilità introdotti a seguito delle consultazioni con le parti sociali sono già forti. E le associazioni imprenditoriali temono che facciano breccia in Consiglio. Non si tratta solo di garantire qualche opportunità alle aziende di costruzione, ma anche di assicurare spazi vitali all’industria manifatturiera per ampliamenti dell’esistente o, soprattutto, per nuovi investimenti. «Come abbiamo visto nel caso delle nuove fabbriche di Philip Morris o Lamborghini _ ha dichiarato il presidente di Confindustria regionale Maurizio Marchesini _  non è sempre possibile realizzare grandi investimenti riusando aree già urbanizzate. A volte utilizzare il green field è l’unica opzione per attirare grandi progetti».  Donini concorda e si concede una battuta: «Vorrei essere io l’assessore che ammette di aver fallito se fra cinque anni saranno arrivate 150 multinazionali a creare centomila posti di lavoro» ironizza.

Comunque la nuova legge già riduce di due terzi i piani di espansione in essere, cioè taglia di 180 chilometri quadrati il consumo di suolo previsto dalla vecchia legge che consentiva di incrementare dell’11% l’area urbana esistente. E in prospettiva tende al consumo zero entro il 2050.  Il tasso di urbanizzazione in regione è cresciuto esponenzialmente negli ultimi cinquant’anni, soprattutto a scapito delle aree agricole,  calate del 10%: era il 3% dell’intero territorio negli anni 50, il 4,8% nel ’76, l’8,6% nel 2003 e il 9,3% nel 2008; attualmente è il 10% circa. In base alla legge urbanistica del 2000 la superficie cementificata potrebbe crescere ancora dell’11% circa, vale a dire di altri 257 chilometri quadrati di qui al 2050. Anche se con una demografia stagnante e un mercato fiacco, elevati tassi di invenduto e prezzi in calo (-17% negli ultimi 5 anni), tali numeri sembrano assurdi. L’urbanizzazione passata, per di più, è stata disordinata e socialmente costosa, per un quarto circa fuori dai centri abitati. Per contrastare queste distorsioni la nuova legge adotta una filosofia radicalmente diversa. Più che fissare vincoli rigidi, parametri numerici e obiettivi quantitativi mira infatti  a «regolare processi di rinnovamento dei sistemi urbani sempre meno prefigurabili in maniera dettagliata a priori». Ogni rigenerazione o  riqualificazione, sostiene la Giunta, deve fare i conti con «una molteplicità di soggetti», vincoli diversi, incertezze di mercato, condizioni di fattibilità e costi imprevisti. Necessita quindi di flessibilità. Addio quindi alla pianificazione a cascata. Un solo piano regionale (Prt), un solo piano per aree vaste (Ptav) e città metropolitana (Ptm), un solo piano per i comuni (Pug) con un Ufficio di Piano cui faranno capo tutte le pratiche edilizie, compresa l’autorizzazione degli interventi ordinari. Le trasformazioni complesse, invece, saranno regolate caso per caso da «accordi operativi», senza parametri edilizi precostituiti. Anche il «parametro 3%» non è rigido. Sono escluse infatti le opere pubbliche, gli ampliamenti di attività produttive esistenti e gli insediamenti strategici, mentre all’interno del vincolo al 3% saranno ammessi soltanto interventi di edilizia sociale o opere in grado di generare sviluppo e attrattività per il territorio.  Tutto il resto dell’attività edilizia potrà realizzarsi soltanto nella riqualificazione dell’esistente, in particolare per l’adeguamento sismico e l’efficientamento energetico, oppure nella riutilizzo di aree già urbanizzate. Rigenerazione urbana e riqualificazione edilizia, però, scontano ancora svantaggi competitivi: maggiori costi, difficoltà attuative, incertezze. La legge prevede quindi una serie di incentivi: esonero dal contributo straordinario di urbanizzazione, aumenti della capacità edificatoria, standard urbanistici differenziati, contributi regionali diretti (30 milioni già stanziati), riduzione degli oneri di urbanizzazione in caso di bonifiche, snellimento delle procedure, come per esempio il voto a maggioranza per adeguamenti anti sismici nei condomini.

Massimo Degli Esposti