Tutti pazzi per i Pir esentasse. Nel 2017 la raccolta a 10 miliardi

Al massimo 30 mila euro l’anno, un tetto di 150 mila, una giacenza di 5 anni, un portafoglio diversificato, per un quinto destinato allo sviluppo delle Pmi: così i redditi dell’investimento sono tax-free. In regione 400 imprese hanno i requisiti giusti, ma solo 30 hanno “visibilità”

Bologna, 5 dicembre 2017

 

Una volta c’erano i cassettisti: investivano a lungo termine nelle imprese quotate più solide e riponevano i titoli azionari (allora di carta) nella cassetta di sicurezza, al punto da dimenticarsene, per la consolazione delle vedove e degli eredi. Poi l’investimento azionario è diventato compulsivo, le azioni entrano ed escono senza sosta nei portafogli e nei fondi, gli algoritmi sono i protagonisti del trading e decidono i quantitativi e i prezzi ai quali intervenire. Le maggiori soddisfazioni sono riservate a banche e gestori, che addebitano commissioni per ogni operazione. La maggior parte dei risparmiatori italiani gira alla larga da Piazza Affari: appena il 2% della ricchezza finanziaria delle famiglie, 80 miliardi di euro su un totale di 4 mila (il doppio del debito pubblico), è investito sul mercato azionario, inclusa la quota dei fondi di investimento.

Sull’altro versante le piccole e medie imprese: anche le più virtuose devono fare i conti con la porta stretta del finanziamento bancario, ora ancora più angusta dopo l’esplosione delle sofferenze e la stretta creditizia. Angusta e soprattutto più costosa, nonostante i bassi tassi di interesse, per via dei più elevati requisiti patrimoniali posti alle banche, che dovranno accantonare a capitale di garanzia almeno il 10% dei finanziamenti erogati alle imprese. Ma è bastata la leva fiscale, che si rivela straordinaria quando sia usata con obiettivi chiari e regole semplici, per consentire l’incontro ­_ finora storicamente “impossibile” _ tra il risparmio delle famiglie e le necessità di investimento delle Pmi.

L’esenzione totale è scattata il 1° gennaio 2017 solo per le persone fisiche, con limiti di investimento che preciseremo meglio; a primavera la platea degli investitori è stata estesa ai fondi pensione e alle casse di previdenza, senza limiti di importo. Dal 1° gennaio 2018 intermediari e assicurazioni potranno investire anche nelle attività immobiliari, prima tassativamente escluse e ora ripescate dalla legge di Bilancio 2018. L’acronimo non è armonioso, ma semplice: Pir, Piani individuali di risparmio. Sulla carta esistono dal 2011, ma senza incentivo non decollavano. In pratica l’Italia li ha “importati” lo scorso anno (copiando esperienze di successo in Francia e Gran Bretagna) attraverso quindici commi inseriti nella legge di Bilancio 2017 (n. 232/2016), che fissano le condizioni per il diritto all’esenzione totale dell’investimento.

La relazione del governo ipotizzava una raccolta di 1,8 miliardi di euro il primo anno, in crescita fino a 5,5 nel 2021, per complessivi 18 miliardi di euro investiti in cinque anni. Non era trascorso neppure il primo trimestre, con non più di dieci operatori già attivi, e la previsione annuale era già stata superata. A fine anno si conteranno almeno 10, forse 11 miliardi di euro investiti attraverso i 60 prodotti-Pir offerti dalle reti di vendita del risparmio gestito, intermediari finanziari e assicurazioni, non tutti ancora scesi in campo. Borsa italiana ha elaborato sei nuovi indici Pir “compatibili”. La sola Mediolanum, la più convinta del nuovo strumento (definito «rivoluzionario» da Ennio Doris), raccoglierà 3 miliardi di euro investiti in Pir. Assogestioni stima che nel 2021 la raccolta complessiva sarà di almeno 55 miliardi di euro, Intermonte si spinge a 68-70 nel 2022, di cui almeno 14 investiti nelle Pmi.

Lo scarto fra l’investimento in Pir e la quota effettivamente destinata alle Pmi salta all’occhio e rappresenta, nel bene e nel male, la principale caratteristica dei “Piani”, che non sono un nuovo strumento finanziario in aggiunta ai molti esistenti, ma un “contenitore fiscale” nel quale collocare uno o più prodotti finanziari o anche semplicemente la liquidità, poi investita dal gestore nel rispetto delle condizioni poste dalla legge per ottenere i benefici fiscali. I redditi di capitale (o eventualmente quelli classificati “diversi”), di regola tassati al 26%, sono fiscalmente esenti quando l’investimento si prolunghi per almeno cinque anni nel capitale di imprese italiane ed europee, con il limite di 30mila euro l’anno e un tetto massimo complessivo di 150mila euro. Poiché l’esenzione è riconosciuta anche agli investimenti intestati a minorenni, con il capitale messo a disposizione da un genitore, una famiglia tipo di 3-4 persone può investire in Pir fino a 90-120 mila euro l’anno e fino a 450-600 mila euro complessivi. Ovviamente nessuna persona fisica può sottoscrivere più di un Pir.

Intermediari e assicurazioni investono in modo da assicurare, tra l’altro, la diversificazione del portafoglio: possono scegliere qualunque strumento, ma nessun singolo titolo può superare il 10% dell’investimento totale. Inoltre non può essere superato il limite della partecipazione “qualificata”, che prevede determinate soglie (dal 2 al 25% del capitale o del patrimonio) a seconda della natura e della quotazione del titolo. La diversificazione, attenua il rischio dell’investimento. Almeno il 70% del totale deve essere costituito da strumenti, quotati o meno, emessi o stipulati con imprese fiscalmente residenti in Italia o nello Spazio economico europeo. Il resto è libero di dirigersi dove vuole il gestore. Del 70% “vincolato”, almeno il 30% (e cioè il 21% del totale) deve riguardare imprese non inserite, se quotate, nell’indice Ftse Mib “o equivalenti”.

Siamo arrivati al cuore del Pir: poco più di un quinto dell’investimento, e cioè un massimo di 31.500 euro a persona nell’arco di cinque anni (6.300 l’anno) deve rivolgersi a piccole e medie imprese non quotate, o quotate in mercati secondari tipo l’Ftse Star e l’Aim. Mercati che, non a caso, sono esplosi nel 2017, sia nelle quotazioni sia nel volume di scambi. Il segmento Star è a +48%, con scambi quasi raddoppiati nei primi nove mesi da 8,4 a 15 miliardi di euro. L’indice Aim si è incrementato del 30% e ogni giorno si scambiano titoli per 13-14 milioni di euro, il quintuplo del 2016, con un valore di 1,4 miliardi di euro nei primi tre trimestri, sette volte maggiore dei 200 milioni di euro del corrispondente periodo 2016. Con Pir per oltre 10 miliardi di euro a fine anno, almeno 2 miliardi finanziano le piccole e medie imprese. Non poco, ma su queste percentuali si è aperto un dibattito vivace, molto delicato.

I pessimisti temono innanzitutto che i Pir siano solo una boccata d’ossigeno per gli intermediari in genere, e in particolare per le banche in veste di gestori. Inoltre intravvedono già il pericolo “bolla”, ovviamente micidiale per la residua fiducia dei risparmiatori. L’intensità degli scambi ha preso il sopravvento (la lunga durata come condizione per godere dell’esenzione fiscale riguarda l’importo investito dal singolo risparmiatore, non la composizione del portafoglio, continuamente movimentato dal gestore), le quotazioni potrebbero all’improvviso diventare volatili, e i rendimenti degli investimenti più recenti azzerarsi o divenire negativi. Gli ottimisti ricordano che i Pir sono per definizione un investimento a medio-lungo termine, non bisogna farsi intimorire dalle oscillazioni. Nel tempo le azioni (solide) e i mattoni danno sempre soddisfazioni. Per la verità, nell’esperienza italiana, più i mattoni che le azioni. Senonché proprio l’ampliamento ai mattoni ha fatto storcere il naso a molti, che lo ritengono un tradimento della natura dei Pir, i quali – pur nel limite del 30%, modesto ma necessario per evitare rischi eccessivi ai risparmiatori – dovrebbero rivolgersi soprattutto alle piccole e medie imprese innovative e manifatturiere.

Altri capovolgono questa obiezione, e fanno notare che, almeno per ora, il numero di Pmi candidate a ricevere le attenzioni dei Pir è modesto, insufficiente per l’inatteso fiume di liquidità riversatosi sui Pir. Quindi gli immobili, che oltretutto rappresentano un’ottima occasione di investimento dopo anni di ribassi, svolgeranno proprio questa funzione regolatrice ed eviteranno le bolle, azionarie o immobiliari che siano. Solo il tempo dirà quale sia la spiegazione più corretta. Né si è azzardato a dirlo il governo, che tanto nella relazione illustrativa del disegno di legge di Bilancio, quanto nella relazione tecnica non dice una sola parola per motivare la cancellazione del divieto posto appena un anno fa agli investimenti immobiliari.

Immobili o meno, la piccola industria chiede più fondi. Alberto Baban, presidente (uscente) dei “Piccoli” e vicepresidente di Confindustria, già in marzo, alla presentazione dei primi tre fondi Pir di Eurizon (Intesa Sanpaolo) ha espresso un desiderio: «Sarebbe bello che la quota da destinare agli investimenti in Pmi italiane non si fermasse al 21%, ma che quella percentuale fosse soltanto un punto di partenza. Lo sviluppo è determinante per trainare la ripresa del Paese». In gioco c’è molto: «Questo cambiamento o ci trova preparati o ci elimina completamente dal quadro competitivo internazionale».

Scenari apocalittici a parte, esistono, in numero sufficiente, queste Pmi non soltanto bisognose di finanziamenti, ma con requisiti di solidità tali da non trasformare prudenti risparmiatori in investitori? Esistono, ma in piccole dosi. Il Rapporto Pmi Centro-Nord Cerved 2017 analizza gli indicatori di 111 mila Pmi delle tre macro-regioni, poco meno di 14 mila delle quali operano in Emilia-Romagna. L’indebitamento, gli oneri finanziari, la solvibilità, non sono tra i migliori. Ma nel decennio della crisi in regione c’è stata prima una grande selezione, poi un grande consolidamento. Il fatturato cresce a ritmi del 4%, i tempi di pagamento sono i migliori in Italia. Più di 400 Pmi sono innovative, oltre il 10% del Paese; più di 1.200 sono start-up innovative, ma la mortalità è tuttora elevata (ovunque) e non sembra il target migliore per un Pir. Insomma, bisogna selezionare molto. Esiste un vivaio già selezionato, in cammino sulla via della Borsa: sono le imprese del programma Elite di Borsa italiana, perfetto identikit delle imprese sulle quali deve investire un Pir. Include 694 società con ricavi superiori ai 50 milioni di euro, oltre 400 delle quali italiane. In novembre sono entrate nel programma 34 italiane, con 58 milioni di ricavi medi e un tasso di crescita del 13%. Due sono emiliano-romagnole (Emiliana Conserve e Sidac, ultima arrivata del distretto del packaging) e portano il totale della regione a 34, “solo” 8 delle quali hanno completato il percorso Elite.

Meno banca, più Pir. Lo spazio per crescere sembra esserci. Per moltiplicarsi occorre un po’ più di tempo.

Angelo Ciancarella

L’Emilia-Romagna cambia pelle Ora è la terra delle competenze

Quindici dei maggiori economisti internazionali riuniti a consulto su una regione che non corrisponde più allo stereotipo food-motori- piastrelle. Big data, Industria 4.0 e Internet delle cose la proiettano tra le nuove eccellenze globali.

Bologna, 30 novembre 2017

 

E’ prima in Italia per crescita, dopo gli anni bui della recessione, con una previsione di aumento del Pil nel 2017, secondo le stime di Prometeia, dell’1,9%, rispetto all’1,5% nazionale, e con un tasso di disoccupazione pari al 5,9%, contro il 9% del gennaio 2015. Ma l’Emilia Romagna non è solo la locomotiva della ripresa del Paese, al pari della Lombardia. È anche una regione che ha cambiato rapidamente pelle: non più solo buon cibo, motori e piastrelle, secondo lo stereotipo narrato dagli economisti degli anni 80. Ma ormai un nuovo caso di successo a livello internazionale per la capacità di cavalcare lo sviluppo tecnologico, tra Big Data, Internet delle cose, alta formazione professionale, Industria 4.0.

Presentare al mondo accademico la realtà nuova dell’economia emiliano romagnola è stato l’obiettivo dalla due giorni che ha radunato a Bologna, alla Fondazione Golinelli, quindici economisti provenienti dai principali atenei italiani ma anche da alcune delle più prestigiose università del mondo, tra le quali il Mit di Boston e Cambridge: Lukas Brun della Duke University (Usa), Annalisi Primi di Oecd di Parigi, Giancarlo Corò dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Vincenzo Colla, della Cgil, Keun Lee della Seoul National University (Korea), Clemente Ruiz Duran della National Autonomous University of Mexico, Jostein Hauge della Cambridge University (Uk), Jorge Mattar di Ecla (Mexico), Salvatore Capasso dell’Università di Napoli, Michael Priore del Massachusetts Institute Technology (Usa), Joan Trullen dell’Universidad Autonoma de Barcelona (Spagna), David Bailey e Lisa De Propris della Business School di Birmingham (Uk). Tutti chiamati a studiare un modello di sviluppo che ha superato i confini delle tradizionali eccellenze manifatturiere che hanno fatto la storia della regione, dalla food valley di Parma, alla motor valley di Modena e Bologna e al distretto delle piastrelle di Sassuolo.

I principali cluster produttivi restano colonne portanti dell’economia ma ora dialogano tra loro e con il mondo grazie a  un sistema coeso fatto di investimenti continui nei nuovi saperi, tra ricerca e avanguardie tecnologiche. Un sistema 4.0 che sta facendo scuola al resto del Paese. «In Emilia Romagna non facciamo più politiche regionali declinate su quelle nazionali», spiega Patrizio Bianchi, economista e assessore regionale al Lavoro e alla Formazione.

«Facciamo politiche locali – prosegue Bianchi – per piantare le pietre angolari di comunità che nascono già con una prospettiva globale». Grandi brand e grandi gruppi industriali, da quelli che svettano nella packaging valley di Bologna alla Ferrari di Maranello, mantengono così il ruolo di motori della ripresa. Ma lo sguardo adesso è rivolto al mondo con una nuova alleanza tra industrie, scuole e istituzioni.

La tradizionale forza del territorio data dalla coesione sociale di cooperativa memoria, dalle reti di subfornitura delle piccole e medie imprese e delle aziende artigiane non è stata affatto archiviata. La trasformazione del modello di sviluppo, ha spiegato Bianchi ai colleghi economisti, è avvenuta senza abiurare a una grande storia ma anzi facendone il collante di una nuova idea di crescita che ruota intorno al Patto per il lavoro sul quale la Regione è riuscita a far convergere tutti i protagonisti del sistema economico e sociale.
La visione è strategica, basata sul medio e lungo periodo, per portare la disoccupazione, entro il 2020, a quel tasso fisiologico che ha sempre caratterizzato il territorio; e si scommette sull’innovazione continua, partendo da un forte investimento sul capitale umano e sulla formazione.

Un cambiamento che attira sempre di più le grandi multinazionali. Come Philip Morris, che ha scelto il Bolognese per il primo stabilimento al mondo per la produzione di sigarette di ultima generazione, dopo aver individuato nel territorio la rete di subforniture e di scuole necessarie al suo sviluppo oltre a un solida sponda istituzionale. O come la maison Louis Vuitton che ha investito su Ferrara per le calzature extralusso Berluti perché ha trovato nella città emiliana l’alta formazione artigiana di cui aveva bisogno.

E’ il risultato di un intervento sistemico che ha messo insieme imprese, sindacati, istituzione e politica per dare corpo a una ripresa che non è più congiunturale ma strutturale, guidata dalla rivoluzione tecnologica e digitale in una regione che mantiene la sua storica vocazione alle esportazioni, che assorbono più del 70% della produzione manifatturiera. Il migliore esempio della nuova storia dell’economia emiliano romagnola è il polo dei Big Data che sta prendendo forma in questi mesi sotto le Due Torri, anche grazie a circa 40 milioni di finanziamenti del Miur arrivati a sostegno delle eccellenze bolognesi (15 in tutto, tra cui Cineca, Cnr, Enea e gli istituti nazionali di fisica nucleare e astrofisica, e ora il centro di elaborazione dati del Centro Europeo di Meteorologia in migrazione da Reading in Gran Bretagna). Qui viene processato il 70% del totale dei dati italiani (prima in classifica davanti a Milano), qui c’è lo snodo principale della dorsale Internet ad altissima velocità Garr, qui c’è una densità di ricercatori superiore alla media europea. Senza contare le tante eccellenze private dell’information technology e dell’elaborazione dati come Prometeia e Nomisma e colossi dell’e-commerce come Yoox Net a Porter.

La grande sfida resta una sola: quella di consolidare la competitività di una comunità che ha scommesso sulle competenze, sulle alleanze e sulla valorizzazione del patrimonio scientifico e tecnologico. Insomma, comincia da qui una diversa narrazione dell’Emilia-Romagna che si globalizza nelle competenze prima ancora che nel commercio.

Natascia Ronchetti

Banche: Bper, Unipol, Carige. Quell’ultima mano di un lungo poker

Risolte le crisi di Carife, Carim, Cassa Cesena il risiko bancario emiliano-romagnolo si focalizza sul futuro della ex popolare modenese. Si allontana l’alleanza con le valtellinesi dopo la mossa di Sondrio che ha comprato CariCento e le difficoltà di Creval. Resta sullo sfondo il nodo Unipol Banca e tornano le speculazioni sul fronte Carige.

 Bologna, 30 novembre 2017 

 

Il 18 dicembre l’assemblea del Monte de’ Paschi aumenterà a 15 le seggiole del cda per far posto ai rappresentanti di Generali, ora detentore del 4,3%. L’ennesimo epilogo della telenovela senese vede tuttavia il Ministero del Tesoro sempre più al comando grazie a una quota del 68%, con l’ultimo 16% conquistato a inizio novembre per 1,53 miliardi di euro, saldo e stralcio a favore di coloro che erano divenuti azionisti convertendo le obbligazioni. Lontana anni luce appare l’epoca della difesa a oltranza della toscanità, degenerazione somma di quel “feudalesimo finanziario” che per altro verso ha ormai fatto il proprio tempo persino in Unicredit, dove il nocciolino delle Fondazioni si è ridotto a un 6% complessivo e dovrà lottare per conservare alla meglio una vicepresidenza. Almeno temporaneo campione della toscanità, con 52 filiali e 3,7 miliardi di attivo, è allora Chianti Banca. La quale nondimeno, dopo che BankItalia ha acceso un faro sui dati contabili, deve inevitabilmente decidere una volta per tutte quale casella riempire nel risiko nazionale del credito: se a ottobre il board ha deciso di sottoscrivere l’aumento di capitale di Iccrea, primo superpolo nazionale delle Bcc, un battagliero gruppo di soci vorrebbe riprendere la strada verso la trentina Cassa Centrale, strada già abbracciata nell’assemblea di dicembre 2016.

La possibile ultima mano del risiko si svolge però, anche o soprattutto, su quello strano asse che unisce la Valtellina al cuore dell’Emilia. In ottobre, è stata la prima a invadere la seconda, quando la Popolare di Sondrio ha svelato una lettera di intenti, per ora non vincolante, che le consentirà di rilevare il 51% della Cassa di Risparmio di Cento dalla Fondazione omonima; questo nell’ottica, comunque, di salire successivamente al 67% e infine al controllo totale, e sempre con un corrispettivo misto (di ammontare non rivelato) in contanti e azioni. Una simile mossa ha reso davvero improbabile il matrimonio con Bper, che lo scorso 20 novembre ha completato la spartizione del sistema bancario estense, con la formale entrata in vigore dell’incorporazione di Nuova CariFerrara. Altrettanto difficile, poi, che la sposa dei modenesi divenga il Credito Valtellinese, come pure si è a lungo ipotizzato a Piazza Affari.

Nella prima metà di novembre, l’istituto guidato da Mauro Selvetti ha avuto un tracollo in Borsa legato a quei 4 miliardi di sofferenze che lo lasciano in un limbo, alle prese con un aumento di capitale da 700 milioni di euro: i libri non si apriranno prima di febbraio, dato che l’assemblea per il via libera è fissata per il 19 dicembre. Nel frattempo, però, l’ingresso con il 6,5% dell’imprenditore Denis Dumont ha sospinto le voci di una nuova calata dei francesi in Italia, giusto a poche settimane dalla conclusione della trionfale campagna del Crédit Agricole. Dopo aver acquistato da Unicredit, tramite Amundi, il colosso del risparmio gestito Pioneer, la Banque verte ha incamerato CariCesena,  CariRimini e Cassa di San Miniato arrivando alla soglia dei 5 milioni di clienti in terra tricolore. La ciliegina sulla torta è stata l’assegno da 200 milioni con cui, a inizio novembre, il colosso transalpino ha rilevato, questa volta attraverso Indosuez, il 67,67% di Banca Leonardo, meravigliosa creatura di Gerardo Braggiotti nel comparto del wealth management.

A questo punto, insomma, quali opzioni rimangono sul tavolo di Bper? Con la Sondrio dovrebbe esserci, al massimo, l’intesa per un’operazione di scopo, l’acquisto del 39,8% di Arca Fondi SGR: l’asset, che nemmeno due anni or sono valeva sui 7-800 milioni, si è certo svalutato dentro le procedure di liquidazione coatta amministrativa delle ex popolari venete. Entrambi gli istituti, poi, hanno una joint venture nei prodotti assicurativi con Unipol, che è probabilmente a oggi il tassello più importante di tutto il risiko; risiko del bancassurance, dunque, e non bancario in senso stretto. In estate, il colosso guidato da Carlo Cimbri ha incassato un gruzzoletto di 535 milioni vendendo la propria quota in Popolare Vita a Banco Bpm, che, sciolto un accordo parallelo con l’inglese Aviva, si è poi riaccasato con la Cattolica. E, la sensazione è comune, l’ultima tranche di questa partita a poker pare solamente iniziata.

Di Bper medesima, la compagnia assicurativa controllata dalle cooperative delle Lega (Alleanza 3.0 in primis) detiene oltre il 9%. A ciò, vanno aggiunti i piccoli ma affatto inutili pacchetti che singole cooperative rientranti nella galassia Lega possiedono in proprio nell’istituto modenese. L’eccezione, in Emilia-Romagna, era rappresentata dalla vecchia Coop NordEst: oggi parte di Alleanze 3.0, prima della fusione aveva privilegiato il rapporto azionario, a dir poco non felicissimo, con la Popolare di Vicenza. Lo schema, anzi, doveva probabilmente essere replicato in altre banche, vedi Mps, dove Unicoop Firenze si scottò le dita già in tempi lontani; e vedi Carige, dove Coop Liguria è tuttora assestata all’1,4%, quarto inquilino dopo Malacalza, Volpi e Spinelli.

Con quale spirito si muoverà Cimbri, all’ombra di quella Lanterna con cui nel 2013, ancora sotto la presidenza del poi destituito Giovanni Berneschi, valutò seriamente un’alleanza tramite conversione di bond? Unipol la conversione obbligazionaria l’ha parzialmente realizzata ora, sottoscrivendo assieme a Intesa San Paolo e a Generali il pacchetto da 60 milioni che fa da terza gamba alla ripatrimonializzazione-lampo da 1 miliardo varata da Carige: la polpa, ossia i 500 milioni cash, verrà dagli attuali azionisti, che hanno tempo fino al 6 dicembre per mettere mano al portafoglio, o alternativamente dal consorzio di garanzia faticosamente costituito da Crédit Suisse, Deutsche Bank e Barclays; un’ultima fetta, infine, verrà dalla cessione di asset e di npl. Circa due anni or sono, i liguri misero apparentemente sul mercato la controllata Cesare Ponti, boutique del private banking con 2.500 clienti e 2 miliardi di masse gestite per la quale si fece inutilmente avanti (toh!) Bper. Quest’anno, al contrario, l’asta sui gioielli di famiglia riguarda essenzialmente gli immobili, e in parte si è già concretizzata con la cessione a Enpam per 107,5 milioni di un palazzo situato in Corso Vittorio Emanuele, nel cuore di Milano. Tra le tante ipotesi fanta-bancarie, quindi, non si esclude nemmeno una possibile triangolazione Bper-Unipol-Carige. L’istituto modenese è uscito brillantemente dal processo annuale di revisione e valutazione prudenziale della Bce, e il 29 novembre scorso ha potuto comunicare di avere «un coefficiente patrimoniale, Cet1, ampiamente superiore al livello minimo richiesto in sede di Srep 2018, fissato all’8,125%». A fine settembre, dopo l’acquisizione di Carife, la banca aveva un Cet1 phased-in del 14,03%, quindi con un “buffer” di circa 2 miliardi di euro rispetto al requisito minimo richiesto. Il che amplia le possibilità di manovra della banca diretta di Alessandro Vandelli. Per la sempre invocata e mai realizzata grande alleanza, o per l’operazione che più starebbe a cuore al socio forte Unipol: la cessione ai modenesi di Unipol Banca, ora ripulita di tutti i crediti deteriorati confluiti in una bad bank rimasta sulle spalle della capogruppo Ugf.

 

Nicola Tedeschini

Pietro Ferrari, un uomo tranquillo con l’ossessione della crescita

Il nuovo presidente di Confindustria Emilia-Romagna ha un solo timore: che la mancanza di personale qualificato ci impedisca di cogliere i benefici della rivoluzione industria 4.0

 

Pacato, riflessivo, prudente. Sono tre aggettivi che ben si adattano a descrivere Pietro Ferrari, l’uomo che ha preso in mano le redini degli industriali emiliano romagnoli ereditando dal suo predecessore, Maurizio Marchesini, una associazione snellita sul piano organizzativo dalle operazioni di fusione che hanno portato le territoriali di Ravenna e Rimini alla costituzione di Confindustria Romagna e quelle di Modena, Bologna e Ferrara alla nascita di Confindustria Emilia area Centro. Classe 1955, modenese, una laurea in Ingegneria civile conseguita all’Università di Bologna, Ferrari è ai vertici dell’azienda di famiglia Ing. Ferrari Spa, impresa storica – è stata costituita un secolo fa – che opera nel settore dell’impiantistica  e dei servizi e che ha chiuso l’ultimo bilancio con un fatturato di 48 milioni di euro. Azienda in crescita nella quale lui, racconta, entrò quasi controvoglia. Avrebbe voluto fare l’architetto e, forse, dedicarsi anche alla politica.  Un sogno infranto? Non proprio, visto che la politica in qualche modo l’ha fatta con l’attività associativa. E proprio nel pieno degli anni in cui il Paese cercava di dotarsi di una vera e propria politica industriale. Ferrari ha infatti alle spalle una lunga esperienza in Confindustria, di cui conosce le dinamiche, la forza, gli obiettivi. Dopo essere stato dal 2002 al 2008 vice presidente regionale, per sei anni ha ricoperto la carica di numero uno degli industriali  modenesi, che ha guidato a partire dal 2008 e fino al 2014 nel pieno della recessione economica, trovandosi anche a fronteggiare le  terribili conseguenze sul sistema produttivo provocate dal sisma del 2012. Oggi che la recessione sembra alle spalle, secondo Ferrari è iniziata l’era di una profonda e rapida trasformazione, da cavalcare e non da subire. Se le migliori aziende si sono già riposizionate in una prospettiva globale, Ferrari sa che Confindustria è chiamata a creare le condizioni affinché questa trasformazione sia generalizzata: tutti, anche i piccoli  imprenditori che non hanno saputo marciare mantenendo il passo dei cambiamenti innescati dalla crisi,  dovranno trarne benefici.

Ferrari ha preso in mano lo scettro assicurando una gestione all’insegna della continuità rispetto al suo predecessore. Dovrà completare la svolta verso l’industria 4.0 iniziata da Marchesini, consolidare i già buoni rapporti istituzionali con la Regione Emilia Romagna, ridare pieno ossigeno a un sistema confindustriale che mai come negli ultimi anni ha sofferto di una crisi di rappresentanza, proseguire la politica a sostegno degli investimenti e della coesione delle filiere. Ma dovrà anche assumere un ruolo da protagonista nel confronto con Bruxelles, per rafforzare la voce degli industriali della regione nelle sedi dove si discutono e  si decidono le politiche europee per la crescita e lo sviluppo. E contemporaneamente dovrà risolvere il problema della carenza delle figure tecniche specializzate di cui hanno fame le imprese. Tema, quest’ultimo, molto caro a Ferrari, per il quale gli sforzi fatti negli ultimi anni per rilanciare la cultura tecnica nel nostro Paese, favorendo la formazione di quadri intermedi, non ha ancora dato i risultati sperati, esponendo così le aziende al rischio di non avere competenze adeguate per far leva sulle nuove tecnologie, le uniche che possano fare la differenza nella competizione globale. Proprio la ricerca di personale qualificato è al primo posto nella classifica delle sue priorità. Che comprendono anche una maggiore capacità di competere del sistema Emilia Romagna nel suo complesso _ attraverso gli investimenti in infrastrutture e con la battaglia per l’alleggerimento della burocrazia  e per la semplificazione amministrativa _ e una ulteriore spinta all’internazionalizzazione. In quest’ultimo caso la regione non parte certo da zero. E’ stata proprio la sua storica vocazione alle esportazioni a consentirle di dribblare almeno in parte i pesanti effetti di una recessione prolungata che ha fatto crollare la domanda interna. Ma secondo il nuovo presidente regionale degli industriali ci sono ancora ampi spazi di manovra per le imprese emiliano romagnole per aprirsi ancora di più al mondo. Per questo Confindustria chiede di tenere la barra dritta rispetto alle azioni intraprese dal governo in materia di sostegno allo sviluppo economico. «Gli effetti positivi di questi interventi si riverberano sull’occupazione. Anche le preoccupazioni sulle conseguenze dalla rivoluzione tecnologica si sono in parte ridimensionate», ha osservato il neo presidente regionale degli industriali nel corso della presentazione degli incoraggianti dati congiunturali sul secondo trimestre.

Natascia Ronchetti

L’autunno caldo ricomincia da A con Alitalia, Almaviva e acciaio

Tre maxi crisi aziendali arrivano al capolinea entro novembre. E in Emilia-Romagna tiene banco la chiusura dello storico stabilimento ex Italgel di Parma

Bologna, 28 ottobre 2017

Autunno inizia con la stessa lettera di Alitalia; la stessa di Almaviva; la stessa, ancora, di acciaio. Sono questi i grandi focolai di  crisi nell’ultimo quarto del 2017; una stagione che da qualche anno, un po’ sotto traccia, è tornata calda come negli anni ’70 delle grandi vertenze metalmeccaniche. Solo che, per usare le parole di Francesco Aufieri, segretario nazionale della Slc-Cgil sul Corriere della Sera “le catene di montaggio del nostro tempo” non sono nelle fabbriche, bensì dentro i call center. I call center, appunto, come quelli di Almaviva, il sesto gruppo privato nazionale per numero di addetti, 12mila in Italia e altri 33mila nel mondo.

Dopo la cessazione di un maxi-appalto con l’Eni, il colosso del customer care aveva proposto per i 500 lavoratori della sede milanese di via dei Missaglia di congelare i pagamenti degli straordinari e di utilizzare la cassa integrazione a zero ore. L’offerta ha trovato la contrarietà di Cgil e Uil, e soprattutto del 75% dei lavoratori chiamati al referendum. Di conseguenza l’11 ottobre l’azienda ha invitato 64 dipendenti a trasferirsi in un paese della Calabria, Rende, a migliaia di chilometri dalle rispettive famiglie. Nelle ultimissime ore, però, l’Eni ha concesso ad Almaviva una quota aggiuntiva di lavoro permettendo all’azienda di ritirare i 64 trasferimenti. Resta da vedere se questa sarà la soluzione definitiva.

Tra le commesse perse negli ultimi anni da Almaviva c’è poi Alitalia, che ormai a ogni campagna elettorale tiene sotto frusta diversi politici, i detentori dei punti Mille Miglia e, soprattutto, 9.645 lavoratori. L’ultimo colpo di scena è l’agognata offerta per l’intero blocco rivelata dal Financial Times e che porta la firma del fondo Cerberus. Tra le altre proposte d’acquisto vincolanti, spiccano quelle di Lufthansa (che scucirebbe mezzo miliardo di euro) ed Easyjet. I tedeschi lascerebbero però fuori, oltre all’handling, il personale di terra: dentro solo la parte aviation, e magari nemmeno tutta. In sostanza, la New Alitalia diverrebbe una low cost a cui non servirebbero più gli attuali 25 velivoli per il lungo raggio, perché dedita esclusivamente a brevi e medie distanze, come ponte verso gli hub intercontinentali. Una piccola Ryanair, insomma: proprio lei, la tigre irlandese che al terzo round si è ritirata dall’asta indetta dal commissario straordinario Luigi Gubitosi, complice la maxi-vertenza di fine estate con i piloti. La vicenda Ryanair ha spinto il governo Gentiloni a spostare la fine della gara per Alitalia dal 5 novembre al 30 aprile: grazie al decreto fiscale pre-finanziaria, a Gubitosi arriverà un altro assegno da 300 milioni, dopo i 600 della primavera, in modo da tenere botta fino al prossimo settembre.

L’orizzonte appare più ristretto, invece, ai dipendenti dell’Aferpi di Piombino, che è poi la ex Lucchini in versione algerina, al momento anello più debole di quel domino della siderurgia ripartito dopo che la società Am Investco, capeggiata da Arcelor Mittal, ha vinto la gara per l’Ilva, sconfiggendo l’alleanza Jindal-Cdp. Questo risultato, da un lato, ha fatto cadere l’ennesima tegola sull’azienda toscana, perché Marcegaglia, storico cliente, fa parte di Am Investco e quindi intende ora rifornirsi a Taranto; dall’altro lato, però, proprio un’insoddisfatta Jindal vuol creare sul Tirreno il terzo polo nazionale dell’acciaio (il secondo è il gruppo lombardo Arvedi): il piano di inizio settembre parla di 1.800 occupati e 3 milioni di tonnellate di output annuo, da raggiungere peraltro in barba agli ambientalisti, con la riaccensione dopo tre anni dell’altoforno. Secondo i rumors, gli indiani offrirebbero non più di 50 milioni al gruppo Cevital, che rilevò Piombino dall’amministrazione straordinaria; e che tuttavia, stando alle cronache, pur in deciso ritardo sugli impegni presi per il ripristino dell’attività industriale, vorrebbe almeno il doppio.

Il 31 ottobre, dunque, è attesa la prossima mossa del domino. Mossa doppia, anzi: lo stesso giorno il governo potrebbe revocare l’assegnazione ad Aferpi; e, a Taranto, partiranno le trattative tra sindacati e Am Investco, che dei 14.200 dipendenti dell’Ilva conta di tenerne 10mila, peraltro con l’azzeramento delle posizioni contrattuali, ossia con un taglio medio delle retribuzioni di circa il 20%. Non è impossibile, del resto, risolvere una crisi produttiva e occupazionale nel mondo della siderurgia, come dimostra, più in piccolo, il caso della bresciana Stéfana. I 700 lavoratori sono stati salvati da uno spezzatino i cui ingredienti sono stati Feralpi, Alfa Acciai, Duferco; e, da ultimo, Esselunga, la quale, convertendo il vecchio stabilimento di Ospedaletto in un proprio polo logistico, ha assorbito ben 180 addetti.

A proposito di grande distribuzione alimentare, l’estate ha lasciato in sospeso, in particolare, il tavolo al Ministero dello Sviluppo economico riguardante Tuodì. Secondo le ricostruzioni fornite dai sindacati al Sole 24 Ore e poi riprese da altri organi di informazione, a luglio la Tuodì ha chiesto il concordato preventivo in continuità a fronte di 450 milioni di euro di debiti, di cui 225 verso i fornitori, rispetto a un fatturato annuo di circa 750. E così, se su 400 punti vendita a livello nazionale oltre 100 erano stati chiusi, in quelli restanti gli scaffali sarebbero più di una volta rimasti vuoti. Intanto, l’azienda proseguiva le trattative per iniettare una massiccia dose di cassa integrazione straordinaria in una realtà da circa 4mila dipendenti, 6mila con la consorella Dico (acquistata quattro anni fa dalla Coop, un affare per cui ora pende una causa da 300 milioni davanti al Tribunale di Milano). Stando al sito Italiafruit.it, a metà settembre i vertici avrebbero promesso la riapertura, nel giro di due mesi, di 95 negozi, mentre per un’altra trentina era previsto l’appalto a un soggetto terzo: tale eventualità alimenta le voci su un passaggio di consegne tra Tuodì e Aldi, il colosso tedesco dei discount che da tempo prepara la sfida italiana a Eurospin e ai connazionali di Lidl.

Multinazionali che vengono, dunque, e multinazionali che vanno, secondo un’imperitura legge che già si è ricordata su queste schermate. Del resto, quelle che investono in Italia certo non trovano le porte aperte, come insegna il caso di Kering: il gruppo transalpino, più volte al centro delle polemiche sulla conquista della moda tricolore da parte francese, nel 2013 si è pure preso dalla procedura concorsuale il marchio della Richard Ginori di Sesto Fiorentino, salvando quindi 280 dipendenti, più o meno pari agli anni di storia dell’azienda. Il futuro, tuttavia, è tornato incerto a causa del mancato accordo tra Kering e i proprietari dell’area dove sorge lo stabilimento delle prestigiose porcellane, che sono poi le banche creditrici della precedente gestione o chi quei crediti ha rilevato (eh sì, i benedetti Npl). Al quadro, si aggiunge l’attesa di altre 87 persone che non erano state riassorbite alla ripresa dell’attività.

Uno dei fronti più difficili rimane, in ogni caso, quello della Ericsson, che tra luglio e settembre ha ufficializzato 250 dei 315 licenziamenti (su 3mila occupati italiani) previsti dall’ultima procedura sindacale avviata in primavera, colpendo soprattutto Genova e Napoli. La stampa svedese, giusto dopo Ferragosto, ha parlato di un nuovo piano di 25mila esuberi a livello mondiale, generati dalle incertezze che il colosso dell’elettronica incontra a causa della pressione concorrenziale di Nokia e ancor più di Huawei.

L’alternanza tra crisi piccole (trattate dagli assessorati regionali o senza la mediazione delle istituzioni) e crisi grandi si ripete, in sedicesimo, in Emilia-Romagna. Ultimo caso eclatante è l’ex Italgel di Parma: quella del Mottarello e del Maxicono, per intenderci, a lungo sotto le insegne della Nestlé e dal 2016 appartenente alla Froneri, joint venture tra la stessa multinazionale svizzera e una società terza. A fine settembre, la Froneri ha annunciato la concentrazione dell’attività produttiva tra Umbria e Lazio; nell’ex ducato, su 120 dipendenti attuali (stagionali esclusi), rimarranno solo amministrativi e addetti commerciali. Numeri minori, invece, per la Vapor Europe di Sassuolo, dove a rischiare lo stipendio sono 30 dipendenti su circa 50 totali; anche lì, nondimeno, la proprietà è di una multinazionale, la Wabtec, che pure intende trasferire la produzione delle porte automatiche create per autobus, treni e metropolitane: la destinazione è la Repubblica Ceca, mentre nel distretto della ceramica resterebbe solo il post-vendita.

Nicola Tedeschini

Continua il cavario dei Confidi e le fusioni non sono il toccasana

Nuove crisi in Piemonte e Adriatico Meridionale: le aggregazioni c’erano state, ma da sole non sono bastate a  creare redditività e contenere le sofferenze. Serve un rafforzamento dei servizi e una gestione più professionale

Bologna, 30 ottobre 2017

La schiarita sul fronte banche e la ripresa dell’economia reale non hanno ancora prodotto i risultati attesi sul sistema dei Consorzi fidi. Un anno dopo il fallimento di Eurofidi, il più grande consorzio italiano di garanzia, il Piemonte è nuovamente alle prese con un clamoroso caso di default. E qualcosa del genere potrebbe accedere anche nel Centrosud, dove l’estate è trascorsa senza una soluzione per la crisi del consorzio di garanzia abruzzese-pugliese Confidi Adriatico. L’analisi annuale di Crif Rating sullo stato di salute dei Confidi italiani, del resto, ribadisce le stesse criticità segnalate l’anno precedent:  scarsa redditività, alto tasso di insolvenza, mancata copertura di secondo livello, a posteriori, da parte del fondo nazionale di garanzia.

Ma procediamo con ordine. Il nuovo default in Piemonte riguarda Unionfidi Piemonte che con i suoi 335 milioni di euro di garanzie rilasciate rappresentava uno dei principali player regionali. “Come per Eurofidi, la scarsa redditività, l’inefficacia dei sistemi interni di monitoraggio del credito oltre che la revoca della controgaranzia pubblica sono le motivazioni principali sottostanti alla crisi”, afferma Carmen Acerra, Rating Specialist di CRIF Ratings.

Dalla visita ispettiva condotta da Banca d’Italia nei primi mesi del 2017, è scaturita l’iscrizione in bilancio di significative rettifiche di valore sulle garanzie rilasciate in considerazione di una situazione di “notevole sofferenza ascrivibile a perdite su crediti inesigibili”. Unionfidi si è trovato costretto a maggiori accantonamenti a fondo rischi per 13 milioni di euro, di cui circa 2 determinati dall’inefficacia della controgaranzia rilasciata da MedioCredito Centrale (‘MCC’), gestore del Fondo cenrtale di garanzia. L’impatto è stato una perdita di esercizio di 15 milioni, la drastica contrazione del patrimonio di vigilanza a garanzia degli impegni assunti e il deterioramento del TIER1 allo 0,5% di fronte alla soglia minima del 4,5% prevista dalla normativa. Inevitabile è stata la messa in liquidazione, con un deficit patrimoniale stimato in 19 milioni.

Dal punto di vista reddituale, la perdita d’esercizio del 2016 è ascrivibile anche alla svalutazione della partecipazione di minoranza in Veneto Banca per 1,7 milioni di euro. Il default di Unionfidi Piemonte, sottolinea Crif, presenta altri tratti in comune con il caso Eurofidi, una circostanza che suggerisce un’attenzione costante su un possibile effetto contagio. La ricerca di dimensioni operative maggiori sotto la spinta della nuova normativa, sostiene Crif, è uno stimolo all’efficienza che tuttavia, se non adeguatamente gestito e finanziariamente supportato, può accelerare l’emergere di crisi irreversibili. La multi-settorialità e l’allargamento dell’operatività oltre i confini regionali necessitano di strutture operative adeguate e un altrettanto adeguato presidio del territorio di riferimento e del rischio assunto. Questo, tuttavia, implica investimenti che, con ricavi e aiuti pubblici sempre minori, diventano a volte insostenibili. Dall’altra parte, c’è l’inefficacia della controgaranzia. In linea teorica i controlli ex-ante realizzati da MedioCredito Centrale dovrebbero favorire la presentazione di pratiche conformi ai requisiti di ammissibilità alla controgaranzia del FCG. Tuttavia le verifiche ex-ante coinvolgono una quota marginale (circa il 5%) del totale delle pratiche presentate e accolte, mentre la gran parte dei vizi di sostanza e di forma emerge solo ex-post a seguito delle escussioni, una circostanza che provoca la revoca della controgaranzia inizialmente rilasciata e conseguentemente gravosi accantonamenti a fondi rischi e assorbimenti di capitale. Per lo stesso motivo banche e clienti sono spinti ad accedere direttamente al Fondo Centrale di Garanzia bypassando i Confidi.

Sarebbe a rischio liquidazione anche Confidi Adriatico, nato l’anno scorso dalla fusione tra Confidi Mutualcredito di Pescara e Fidindustria Puglia Consorzio Fidi, di Bari. La richiesta inoltrata alla Banca d’Italia per l’iscrizione nell’Albo dei confidi vigilati (ex art. 106 TUB) è stata respinta dopo che la società di revisione Kpmg si è dichiarata “impossibilitata” a controfirmare il bilancio 2016. Il presidente Andrea Leone, ha rassegnato le dimissioni, a dicembre si era dimesso il vicepresidente ed ex presidente, Giorgio Di Rocco. Ora si starebbe valutando se mettere in liquidazione la società oppure ridimensionarla a Confidi non vigilato. Un’opzione B potrebbe essere una nuova fusione con un Confidi di dimensioni maggiori. Quella delle fusioni è la strada percorsa in questi anni e appoggiata anche da Federconfidi, l’associazione confindustriale del comparto. Così è avvenuto in Emilia-Romagna, dove nel 2016 c’è stata la fusione per incorporazione di Fidindustria nella Unifidi di Cna e Confartigianato. In Lombardia è stata creata nel 2015 Confidi Systema!, dalla fusione per incorporazione in Artigianfidi Lombardia di Confidi Lombardia, Federfidi Lombarda, Cofal (Consorzio fidi agricoltori lombardi) e Confidi Province Lombarde. Dinamiche simili si sono avute in Trentino, in Friuli e nelle Marche. Ultimo della lista è stato l’accordo in Campania tra la Gafi e la Confidi Regione Campania. In genere queste aggregazioni sono state accompagnate da contributi regionali anche cospicui. Un fondo da 225 milioni per la concessione di nuove garanzie alle imprese associate ai consorzi fidi è stato messo a disposizione anche meno di un mese fa dal ministero dello Sviluppo.
Possono richiedere il contributo i confidi iscritti all’albo degli intermediari finanziari; i confidi coinvolti in operazioni di fusione per la nascita di un unico soggetto che abbia i requisiti per l’iscrizione nell’albo degli intermediari finanziari; i confidi che abbiano stipulato contratti di rete finalizzati al miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia operativa dei confidi aderenti e che abbiano erogato, nel loro complesso, garanzie in misura pari ad almeno 150 milioni di euro.
Lo stanziamento iniziale può essere incrementato da eventuali risorse messe a disposizione da Regioni, Enti pubblici e Camere di commercio.

Massimo Degli Esposti

Spac, un veicolo low cost per capitalizzare e quotare le Pmi

Otto dei 31 collocamenti del 2017, per un miliardo di euro, riguardano questo strumento finanziario sconosciuto in Italia fino al 2011: 18 operazioni, 2 miliardi di euro, per far crescere Avio, Fila, Lu-Ve, Orsero e molte altre. Ma finora nessuna impresa emiliano-romagnola. 

Milano, 30 ottobre 2017

Otto quotazioni su 31 alla Borsa di Milano, nei primi dieci mesi del 2017, sono costituite da Spac, società finanziarie a caccia di obiettivi “industriali” da acquisire o con i quali fondersi. Hanno raccolto, al momento del collocamento, quasi un miliardo di euro (986 milioni), denaro fresco da parcheggiare al massimo per un paio d’anni come liquidità garantita, per essere poi investito in capitale di rischio. Ad acquisizione avvenuta la Spac si trasforma in società operativa, già quotata, solo cambiando denominazione; ovvero trasmette il suo status di società quotata al partner nel quale si incorpora. L’operazione si perfeziona in uno-due anni, per essere coerente con la tipologia di investimento: una sorta di start up finanziaria, finalizzata a un investimento produttivo.

L’acronimo Spac sta per Special Purpose Acquisition Company, sintesi efficace dello strumento: un “veicolo societario” che ha lo scopo di raccogliere capitale per acquisire aziende già esistenti e in fase di sviluppo, o almeno con potenzialità da concretizzare. La raccolta avviene tramite Ipo, un’offerta pubblica di azioni immediatamente seguita dalla quotazione. Lo strumento è snello e i costi di quotazione ridotti. Questo piace alle imprese che vogliono crescere senza cedere il controllo e senza doversi indebitare con le banche. E piace ai promotori delle Spac, perché partecipano all’investimento e, attraverso quote di capitale e la conversione di warrant emessi al momento del collocamento, “remunerano” la loro attività di scouting e il loro fiuto imprenditoriale. Per gli investitori, come sempre, i conti si fanno dopo, caso per caso. Ma si può affermare con ragionevole certezza che, per le loro caratteristiche, le Spac sono giustamente considerate un investimento a rischio contenuto, di durata definita (almeno nella fase pre-industriale) con elevate potenzialità di guadagno in caso di successo della business combination, cioè la vera e propria operazione societaria.

I promotori, o sponsor, rappresentano  o esprimono il management della Spac: sostengono tutte le spese per gestire l’operazione, lasciando intatto il capitale fino al momento della business combination. Al termine della sottoscrizione dell’Ipo lo sponsor mantiene una quota intorno al 20% del capitale della Spac, costituito da azioni e da warrant, in genere nel rapporto di 1:1. La sottoscrizione di una quota della Spac comporta sempre l’acquisto di una Unit, e cioè di un’azione accompagnata da un warrant, che sarà utilizzato per il concambio con la società target o nelle fasi successive.

Il fenomeno è recente in Italia: la prima Spac è del gennaio 2011 (Italy 1 Investments, che raccolse 150 milioni di euro e un anno e mezzo dopo acquisì Ivs, leader dei distributori automatici di cibi e bevande); l’ultima è del 19 ottobre scorso, con il collocamento da 150 milioni di euro di Industrial Stars of Italy 3. Il totale è di 18 Spac quotate, in genere nel segmento Aim, il “mercato alternativo” riservato alle piccole e medie imprese.

La raccolta complessiva in fase di collocamento, dal 2011 a oggi, supera di poco i 2 miliardi di euro. Come si è visto, la metà di questo importo si concentra nel 2017, nell’arco di sette mesi: da metà marzo, raccolta di 130 milioni di euro per la quotazione di Crescita, partecipata da operatori finanziari, professionisti d’affari, e DeA Capital, finanziaria del gruppo De Agostini; fino a Indstars 3, promossa da due veterani delle pur giovani Spac, nonché manager e finanzieri di lungo corso: Attilio Arietti e Giovanni Cavallini. Sono tra i non molti a poter già esibire il successo di due precedenti operazioni, avendo collocato nel luglio 2013 la prima Industrial Stars of Italy: raccolsero 50 milioni di euro e un anno e mezzo dopo, con un primo dettagliato “Documento informativo”, annunciarono l’accordo per la fusione con il gruppo Lu-Ve, leader negli scambiatori di calore. Accordo poi approvato dall’assemblea dei soci, perché l’ultima parola sul partner prescelto spetta agli azionisti, i quali anche individualmente hanno il diritto di recesso (tuttavia non esercitato da nessuno, nel caso specifico). Operazione conclusa nel luglio 2015 con la quotazione di Lu-Ve, perfettamente in linea con il biennio concesso a una Spac per realizzare l’operazione. Oggi Lu-Ve è scambiata agli stessi livelli della quotazione, ma ad inizio 2017 si era apprezzata del 25% in un anno e mezzo.

Anche l’altra operazione promossa da Indstars 2 è andata a buon fine, ed è stata perfino più rapida. Quotata nel maggio 2016 dopo aver raccolto 50 milioni di euro, la scorsa primavera ha perfezionato la business combination e ha incorporato il gruppo padovano Sit, azienda meccanica di precisione (“Sit-La Precisa”, si chiamava) fondata oltre 60 anni fa e tuttora gestita dalla famiglia de’ Stefani, oggi specializzata nei sistemi di controllo e regolazione per il riscaldamento domestico, la ristorazione collettiva, i misuratori di nuova generazione. Dal 20 luglio Sit è quotata a Milano, nel segmento Aim, e in tre mesi ha incrementato la quotazione dell’8%. Con un fatturato di 300 milioni di euro, ritmi di crescita del 10% l’anno e ben 75 brevetti depositati, Sit ha finora conseguito utili marginali: appena 1,7 milioni di euro nel 2016, che pure rappresentano un multiplo rispetto al 2015. È il perfetto identikit di una Pmi familiare che “sa fare” benissimo quel che produce, ma ha bisogno di ulteriori e diverse professionalità sul versante finanziario e strategico, a sostegno della crescita per linee interne ed esterne. Questa “inadeguatezza” dell’azienda target è ovviamente considerata positivamente, perché una situazione di partenza brillante, ma non su tutti i versanti, accresce le aspettative di rendimento degli investitori.

Nella fase di collocamento le Spac sono sottoscritte soprattutto da banche e investitori istituzionali, e l’andamento della quotazione nel biennio in cui sono praticamente inattive non offre grandi emozioni. Con qualche eccezione: Space 3, quotata dal 5 aprile 2017, in sette mesi ha incrementato del 25% il valore di borsa. Ma è anche un caso particolare, frutto non di un nuovo collocamento bensì dello spin off di 153 milioni di euro da Space 2, collocamento da 308 milioni di euro del luglio 2015, finora il più cospicuo ma solo parzialmente utilizzato per acquisire, con 155 milioni di euro, Avio. È perciò verosimile che l’incremento di valore del capitale “liberato” da quella operazione, incorpori le attese per una futura business combination altrettanto apprezzata dal mercato.

Sulle 18 Spac quotate nel corso degli anni, una decina hanno completato l’operazione industriale. Da quel momento ad essere quotate sono le imprese, che spesso cambiano il mercato di riferimento, passando dall’Aim a quelli maggiori: l’Mta, il mercato telematico, e perfino lo Star. Salvo un paio di casi, hanno tutte conseguito buone e perfino ottime performance. La già citata Ivs, il 35% in 5 anni; Sesa, specializzata nell’It, in quattro anni e mezzo ha triplicato la capitalizzazione; Italian Wine Brands è cresciuta meno, circa il 15% in due anni e mezzo; in due anni Fila ha raddoppiato; Orsero, il colosso mediterraneo della distribuzione ortofrutticola, è cresciuta del 20%, l’aerospaziale Avio del 48% in 27 mesi. Gpi, che offre servizi tecnologici in ambito sanitario, ha incrementato la quotazione del 6,7% in dieci mesi. Solo Zephiro, attiva nelle energie alternative, ha perso il 23% in due anni, nonostante l’apporto di 35 milioni di euro provenienti dalla Spac Greenitaly 1.

La ricerca della società target è la parte forse meno evidente, anche per ovvie ragioni di riserbo, ma più importante di tutta l’operazione. Quando Isi 1 si è fusa con Lu-Ve, i promotori hanno rivelato di aver avuto contatti non fugaci (e cioè scambi di informazioni, sottoscrizione di un patto di riservatezza, valutazioni e perizie fino alle soglie della due diligence) con ben 60 imprese di analogo calibro. Questo dà l’idea di quanta fame di capitale e di quanta volontà di fare impresa circolino nel mondo delle Pmi italiane.

In fase di collocamento la Spac deve indicare nel primo documento informativo, sia pure a grandi linee, il settore industriale, le caratteristiche del target potenziale, le aree geografiche d’interesse. In molti casi il settore è generico, con riferimento per esempio al Made in Italy, al lusso, alle cosiddette “3 effe” (food, fashion, furniture), che in fondo possono includere quasi tutto, fonderie e meccanica escluse. In alcuni casi, invece, il settore d’investimento è chiaramente delimitato all’origine: per esempio, Glenalta Food fin dal nome ha circoscritto la sua ricerca all’agroalimentare, e si è poi unita con il gruppo Orsero.

La business combination completa il percorso. Ma in teoria, se l’obiettivo non è perseguito, può anche essere sostituita dalla liquidazione. Il capitale della Spac non può restare a sonnecchiare per un tempo indeterminato. Dopo 24 mesi o è investito o è liquidato. E anche quando il target sia centrato, il singolo investitore può sempre tirarsi indietro ed esercitare il diritto di recesso, ovviamente ai prezzi di borsa del momento. Ad ogni nuova quotazione, ormai sempre più frequente, Barbara Lunghi, responsabile del mercato primario di Borsa Italiana, osserva che le caratteristiche del nostro tessuto economico rendono l’Italia il mercato di riferimento europeo delle Spac.

In tutto questo scenario che premia lo spirito imprenditoriale e le Pmi italiane di origine familiare, è naturale chiedersi quale ruolo giochino le imprese emiliano-romagnole, che dovrebbero essere fra i target più appetibili e ricercati, e anche fra i più disponibili e interessati. Non è così. Per il momento le Spac non vanno a caccia in Emilia-Romagna o, se lo hanno fatto (com’è probabile) non hanno trovato terreno fertile. Eppure è modenese purosangue Gino Lugli, ex manager di Ferrero, fondatore con Luca Giacometti di Glenalta Food (di cui si è già detto) e poi di Glenalta, quotata dal 19 luglio scorso dopo aver raccolto 98 milioni di euro da investire in un target generalista. Il milanese Giovanni Cavallini, fra molte altre cose, ha guidato per oltre dieci anni (come Ad e poi presidente) il gruppo reggiano Interpump, fondato negli anni ’70 da Fulvio Montipò. Infine Matteo Storchi, amministratore delegato ed erede di un altro gruppo meccanico reggiano, Comer, in un’intervista a Corriere Imprese Emilia-Romagna sulle prospettive di crescita del gruppo, ha ammesso di considerare la Spac un’ottima soluzione per portare in Borsa la sua azienda senza perderne il controllo.

Il risiko della ceramica irrompe in salotto (buono)

La holding di partecipazioni milanese Mittel compra Ceramica Cielo di Viterbo. E’ l’ultimo colpo nella girandola di acquisizioni che da anni rimescola le carte a Sassuolo e dintorni. In Italia piovono capitali stranieri, ma i campioni tricolore rispondono con investimenti green fields in America e Russia.

 

Giugno 2017 ha regalato un player di peso al distretto della ceramica tricolore. Un distretto diffuso perché, pur avendo Sassuolo come indiscussa capitale, si ramifica tra la Bassa emiliana, il circondario faentino e una propaggine nel Lazio. Proprio lì è arrivato il nuovo giocatore. Si chiama Mittel spa, e, con 15 milioni di euro, ha acquistato l’80% della Ceramica Cielo. Sede a Viterbo, produce sanitari di ricercato design e, più in generale, complementi d’arredo per il settore luxury. L’altro 20% delle azioni, e la carica di ad, restano al fondatore Alessio Coramusi. La milanese Mittel è una delle più note holding di partecipazioni del Belpaese, nonché uno degli ultimi salotti buoni del capitalismo settentrionale, essendo stata fondata niente meno che da Giovanni Bazoli. L’impegno di Mittel nel mondo della ceramica non è una completa novità: la finanziaria è infatti socia di Progressio, una sgr che dal 2006 al 2012 tenne sotto il proprio controllo, in coabitazione con Lauro Giacobazzi, il Rondine Group di Rubiera. Quando Progressio uscì, a gennaio 2013, le porte girevoli si mossero in senso inverso per il colosso ottomano Seramiksan. Nonostante i rumors dell’estate scorsa su possibili rimescolamenti di quote, i turchi mantengono il 50% di una realtà con quasi 300 dipendenti e un fatturato di oltre 85 milioni. All’epoca dell’approdo di Seramiksan il distretto era ancora frastornato da quello che resta l’affare del secolo, consumatosi a Natale del 2012. A un mese dalla morte del patron Filippo, la Marazzi, di gran lunga leader del settore sotto qualsiasi indicatore di performance, passò per un 1,17 miliardi di euro a Mohawk Industries. Il gigante americano dei materiali da rivestimento (dalle moquette ai vinili), che sforna 8,6 miliardi di dollari di ricavi annui e vanta

34mila dipendenti, vide in questo gioiello del made in Emilia l’occasione per completare la propria gamma d’offerta con le lastre ceramiche. L’appetito, però, vien mangiando e a gennaio di quest’anno Mohawk ha concesso il bis, acquistando tramite Marazzi un nome carico di gloria come Emilceramica. Le cronache parlano di un affare da 150 milioni di euro (a fronte di un fatturato 2015 della società target pari a 182 milioni), che ha diviso i destini dei due storici reggenti di Emilceramica: se Sergio Sassi è rimasto con la nuova proprietà, a Villiam Tioli, o comunque al di fuori del perimetro del deal, sono rimaste l’ucraina Zeus e la quota nella joint venture indiana Nexion. Nelle valli della piastrella, i capitali americani sono forse, più che la regola, una significativa eccezione. Tale eccezione si rafforzò nel settembre 2014, quando un altro colosso quale Ferro Corporation (già titolare di un presidio a Fiorano) fece arrivare 108 milioni di dollari dall’Ohio a Casola Valsenio, per accaparrarsi la Vetriceramici (oltre 50 milioni di fatturato e impianti anche in Messico, Polonia e Turchia). A queste latitudini, nondimeno, gli affari dal sapore esotico rappresentano una lunga consuetudine. Florim, per esempio, ha da poco confermato, in un mini-riassetto della filiera societaria, la partnership strategica e azionaria con i thailandesi di Siam Ceramics, che hanno peraltro partecipato al rilancio della ex-Cerit di Mordano. Gs Luxury Group, realtà costituita nel 2014 che sforna piastrelle con l’insegna Tonino Lamborghini, ha un’intesa per l’esternalizzazione produttiva con il gruppo boliviano Faboce. Nel maggio 2015, l’egiziana Omega Ceramics, non paga dei sei impianti detenuti in patria, rilevò ad Alfonsine, nel ravennate, la fabbrica un tempo appartenuta alla Cercom, appendice della sventurata CoopCostruttori di Argenta. E i turchi di Kale Group, erano calati sull’Emilia già nel 2011, ancor prima di Seramiksan, per rilevare dal concordato preventivo la polpa della vecchia Edilcuoghi. L’idea era portare nella penisola da un lato capitali, dall’ altro un canale d’accesso al bacino mediterraneo; prendendosi in cambio, ovviamente, fette di un know how unico al mondo. Ora, però, le mire di Kale si sono quanto meno ridimensionate, in particolare dopo la cessione del compound parmense di Borgotaro a Laminam. Laminam è stato il mezzo con cui System Group è passato, con il terzo millennio, dai macchinari per ceramica direttamente al prodotto finale, e questo per volontà ostinata del patron Franco Stefani, che ha così imposto al mercato il nuovo standard delle lastre sfornate dalle sue macchine, ossia mattonelle di grandi dimensioni _ tre metri e oltre per due metri e mezzo _ adatte agli esterni e perfino a particolari soluzioni d’arredo. Quella che era una scommessa personale si è tramutata in un gioiello da 220 addetti e 68 milioni di entrate nel bilancio 2016, anno in cui l’azienda ha assunto il controllo anche di Laminam Rus. Quest’ ultima è la società che gestisce il terzo impianto del gruppo, 1.400 metri quadrati in esercizio da marzo a 100 chilometri da Mosca. E se Stefani e i suoi accoliti già pensano alla Cina, dove da tempo sono in corso trattative per costituire una nuova joint venture, la Federazione Russa ha fatto da teatro, lo scorso gennaio, all’espansione estera della rubierese Litokol, che ha acquisito il 21% di Estima Keramika, primo operatore del Paese. Considerando che Litokol ha come core business i collanti per l’edilizia, emerge dunque un altro caso di operatore dell’indotto che si muove verso l’anello terminale della filiera del valore. Un altro fenomeno è la forte spinta all’internazionalizzazione. Secondo l’ultima indagine congiunturale di Bper Banca e Confindustria Ceramica, infatti, le 16 società di diritto estero a controllo italiano hanno occupato, nel 2016, 3.283 addetti, dando vita a 85 milioni di metri quadrati di prodotto e 855 milioni di euro di ricavi (le imprese residenti in madrepatria hanno invece incassato 5,4 miliardi, a cui si aggiungono i 776 milioni dei produttori di ceramica sanitaria, materiali refrattari e stoviglie). Ben prima che gli yankees sbarcassero sulle rive del Secchia, del resto, i sassolesi avevano piantato le proprie bandierine tra Texas e Tennessee. L’ultimo a muoversi è stato il Gruppo Concorde, che nel 2016 ha inaugurato a Mount Pleasant uno stabilimento da cui oggi escono le piastrelle a marchio Landmarks. Nel prossimo futuro, punta a radicarsi oltre l’Atlantico Cerdomus, altro alfiere del segmento romagnolo del distretto; segmento il cui campione, Del Conca Group, pure detiene dal 2014 un complesso industriale in Tennessee, peraltro già ampliato alla luce, evidentemente, degli ottimi riscontri commerciali. Di investimenti green field, insomma, i piastrellari ragionano volentieri all’estero, mentre in Italia i capitali si riversano piuttosto sull’esistente. Se la Ceramica Castelvetro di Igino Guazzi in questo 2017 ha acquistato lo stabilimento ex Gambarelli di Solignano, alla fine della scorsa estate la famiglia Salvarani, quella della Gresmalt, si era ripresa il sito industriale appenninico di Frassinoro dal concordato di Terre della Badia. Le procedure concorsuali negli anni di una profonda crisi oggi brillantemente superata sono state uno dei principali propulsori di questa giostra di fusioni e acquisizioni che non ha alcuna voglia di fermarsi. Non pochi occhi, in questi mesi, sono puntati sul manager bolognese Graziano Verdi, per un quarto di secolo delfino di Romano Minozzi che poco più di un cinque anni fa gli affidò l’unificazione dei due caposaldi del proprio impero, Iris e GranitiFiandre. Verdi, a fine 2016, ha mescolato le proprie forze con Mandarin Capital Partners, l’operatore di private equity ideato dall’amico e concittadino Alberto Forchielli: ne è nato il progetto Italcer, realtà che non nasconde l’ambizione di diventare polo aggregatore di imprese già esistenti e in cerca di nuove glorie, un campione nazionale dell’alto di gamma con fortissima propensione all’export. Dopo aver sottoscritto un’opzione per integrare il gruppo umbro Tagina, Italcer ha conquistato La Fabbrica di Castel Bolognese; ma, visto l’obbiettivo di arrivare ai 500 milioni di ricavi annui, il suo appetito non è affatto ancora saziato.

Nicola Tedeschini

La «fattura» ben fatta fa crescere le Pmi emiliano-romagnole

Fatturato e valore aggiunto hanno ritrovato i livelli pre-crisi tra le piccole e medie società di capitale in Emilia-Romagna. Il secondo “Rapporto Pmi Centro-Nord” di Confindustria e Cerved analizza in particolare le 112mila imprese del Centronord. Il recupero di redditività è ancora lontano per tutte, ma l’innovazione corre.
Il 10% delle piccole e medie imprese italiane che operano in forma di società di capitale ha sede in Emilia-Romagna: 13.840 su 136.631, con 385mila addetti (sul totale di 3,8milioni). Dall’inizio della crisi, nel 2007, ne sono scomparse 3mila, il 7,7% (in Italia il 9%); ma ora l’emorragia si è arrestata. Il valore aggiunto superiore ai 20 miliardi di euro, e il fatturato, a quota 95 miliardi di euro, entrambi con incrementi del 4% su base annua, già nel 2014 avevano recuperato il valore pre-crisi del 2007. Per ciò che riguarda il valore aggiunto, il dato è in linea con l’andamento nazionale (relativo allo stesso universo di Pmi di capitale); ma per il fatturato solo il Nordest, in media, ha saputo fare altrettanto (con il picco del Trentino-Alto Adige oltre il 4%), mentre il dato nazionale resta negativo di oltre un punto e mezzo, e all’intero Nordovest mancano oltre 4 punti percentuali. All’universo pregiato delle 112mila Pmi di capitale del Centro-nord, con i principali indicatori articolati per regione, è dedicata la seconda edizione del “Rapporto Pmi Centro-Nord 2017”, elaborato da Confindustria e Cerved. Oltre ai dati di bilancio e alle dinamiche demografiche, analizza anche le abitudini di pagamento e il merito di credito, e dedica un focus particolare alle startup e alle imprese innovative. Tutti dati preziosi. Ma, in anni in cui le cose cambiano molto in fretta, l’unico limite del rapporto è rappresentato dall’utilizzo di dati non più freschissimi, perché riferiti nella maggior parte dei casi al 2014 e solo talvolta al 2015. L’elevata automazione del registro delle imprese consente ampi spazi di miglioramento per questo tipo di ricerche: bisognerebbe uscire in autunno, con i dati riferiti all’anno precedente. Nonostante molte oscillazioni tra una regione e l’altra, quasi tutti i segnali convergono sul superamento della crisi e il consolidamento della ripresa, che in questo piccolo universo-locomotiva è arrivato prima che nel resto del Paese. Basti dire che già nel 2015 il margine operativo lordo è stato generalmente positivo per il terzo anno consecutivo. Ma, mentre nei due precedenti l’Emilia-Romagna (+3,1 e +4,7%) si era messa timidamente sulla scìa del dato nazionale e a rispettosa distanza dal Nordest, nel 2015 la performance regionale è stata notevole: +5,8%, il secondo miglior dato assoluto, dopo l’8% del Friuli-Venezia Giulia; con il dato nazionale più indietro di quasi due punti (+3,9%) e quello del Nordest fermo a +5,1%. Ma questo non è bastato a colmare la perdita di redditività: il margine operativo lordo è una grande cicatrice, che mostra i segni della crisi. Rispetto al 2007 all’Emilia-Romagna ne manca un quarto (-24,2%): non molto meglio del dato complessivo (-25,6%) e quasi tre punti peggio del Nordest (-21,4%). Non consola che il Nordovest stia peggio (-29%). La redditività netta misurata dal Roe, un tempo a due cifre per tutti, nel 2015 lo è stata solo per il Veneto (10,8%), che ha trainato il Nordest (9,2%) avvicinandolo al Nordovest (9,3%). L’Emilia-Romagna si è fermata a 8,7%, in linea con il dato generale dell’8,6%. Non brilla, in regione, la ripresa degli investimenti: ben superiore al 6% nel totale (trainato dal +7% del Centro) e nelle altre regioni del Nordest, si attesta al 5,7% in Emilia-Romagna, qualche decimale in più rispetto al Nordovest. Lo stock di debiti finanziari è di 27 miliardi di euro in Emilia-Romagna, quasi un miliardo e mezzo in più del Veneto, e oltre l’11% dei 240 miliardi di euro complessivi. Nel 2015 l’incremento è stato dello 0,7% rispetto a una crescita media dello 0,3% e addirittura a un arretramento di mezzo punto nel Nordest. Era già stato positivo di mezzo punto l’anno precedente, e in genere è più dinamico che altrove: +11,8% dal 2007, quasi il doppio della media nazionale; il triplo della media del Nordest. In dieci anni oltre 23 mila fallimenti hanno falcidiato questo universo di imprese, 2.179 dei quali in Emilia-Romagna. Per non dire delle altre procedure concorsuali e delle liquidazioni volontarie. Ma nel 2015, per il secondo anno, il fenomeno è in diminuzione. Segnale positivo, dicono gli ottimisti; solo la conferma che tutti i malati sono morti, osservano i realisti. La conclusione non cambia: sono rimasti i più capaci e innovativi, e anche per questo – oltre che per fattori internazionali – la ripresa si consolida pure sul fronte interno. Nel 2015 i fallimenti sono diminuiti del 21,7% in totale; del 28,8% nel Nordest, ed esattamente di un terzo in Emilia-Romagna (164 rispetto a 437), percentuale più elevata fra tutte le regioni. Sulla stessa linea si muove il dato dei pagamenti, con la diminuzione dei ritardi. Nel 2015 il valore delle fatture non saldate entro il trimestre di scadenza è stato, nell’universo delle Pmi di capitale, del 16,6%, e in Emilia-Romagna del 14,6%. Ha fatto meglio il Nordest (12,9%), ma il segnale positivo è rappresentato dal quinto anno consecutivo di riduzione dei mancati pagamenti, quasi ovunque nelle singole regioni e nelle tre circoscrizioni considerate; con la strana eccezione della Valle d’Aosta, che da cinque anni aggrava il ritardo nei pagamenti, dal 10,5% nel 2012 al 18,4% nel 2015. In generale la ricerca dimostra che le imprese “sopravvissute” hanno migliorato la patrimonializzazione, riducendo l’incidenza dei debiti sul capitale, e hanno diminuito l’incidenza degli oneri finanziari sui margini lordi. Va invece analizzato con prudenza il dato sulla nascita di nuove imprese nella fascia delle Pmi di capitale, perché oltre un quarto nel Nordovest (28,9%) e oltre un terzo nel Nordest (36,7%) sono costituite in forma di Srl semplificate, quindi certamente con un capitale modesto, nella migliore delle ipotesi di poche migliaia di euro. Tuttavia la ricerca, applicando una serie di parametri, ha censito nel 2016 quasi 89 mila “vere” nuove società di capitali, dato in leggera crescita (+0,5%) rispetto al 2015. Una ulteriore selezione, basta sulla presenza di investitori specializzati in innovazione e sui siti internet di startup, ha identificato oltre 16 mila società che producono innovazione, 13mila delle quali attive nel Centronord. A sua volta quest’ultimo universo è suddiviso per tre quarti (9.733) in start up innovative, che generano ricavi per 1,6 miliardi di euro e hanno investito 250 milioni di euro; il quarto restante è formato da 3.388 Pmi innovative, con oltre 108mila addetti e ricavi per 22 miliardi di euro. In Emilia-Romagna operano 1.215 start up innovative (il 12,5% del totale Centronord), con un indice di innovazione di 0,54, in assoluto uno dei più elevati. Questa partita si gioca tutta a Nordest, con un indice medio di 0,51 (doppio rispetto allo 0,28 del Nordovest) e punte in Trentino-Alto Adige (che supera l’unità) e Friuli-Venezia Giulia. Sono invece 413 le Pmi innovative emiliano-romagnole, e anche in questo caso rappresentano una quota superiore al 12% del totale Centronord. Gli indici di innovazione in questo segmento sono molto inferiori; in ogni caso eccelle il Nordovest (0,16) rispetto al Nordest (0,04) e all’Emilia-Romagna (0,03).

Angelo Ciancarella

Industria pesante e tlc scaldano l’estate delle crisi aziendali

Dopo la boccata d’ossigeno per Alitalia, ora Ilva ed ex galassia Telecom monopolizzano i tavoli del Mise. In Emilia-Romagna ultima chiamata per Mercatone Uno, ex Terex e Trs Evolution (Trussardi). Timori di tagli anche nelle tre aziende rilevate da multinazionali: Brevini, MetaSystem, Cellular Line. Il caso di BIQ-Ciemme rilevata da un mini workers buyout
L’estate sarà calda, in attesa di un autunno in cui diversi nodi potrebbero venire al pettine anche per le incertezze del quadro politico interno e internazionale. Questo segna il termometro delle crisi industriali del Belpaese. Apparentemente chetatasi la bufera su Alitalia _ ma pronta a riesplodere non appena le pieghe della gestione commissariale dovessero prendere qualche rotta imprevista _ il mese di maggio ha portato l’altrettanto apparente risoluzione di qualche crisi che minaccia comunque di lasciare pesanti strascichi occupazionali. Il pensiero corre evidentemente all’Ilva, dove la vittoria di Am Investco Italy ha spinto i sindacati a inaugurare il mese di giugno con uno sciopero, perché a fronte di 14.220 dipendenti attuali la cordata Arcelor-Marcegaglia-Intesa San Paolo vorrebbe una sforbiciata persino superiore alle 4.100 unità in cassa integrazione, nell’ottica di scendere a 9.400 addetti.

La stessa Alitalia, peraltro, è tuttora uno dei soci, ma soprattutto il primo cliente, di Atitech, società che si occupa di manutenzione e modifica degli aeromobili. Ebbene: al buon grado di incertezza dettato dalla crisi della compagnia si è aggiunta la preoccupazione per i 178 lavoratori di Napoli-Capodichino che Atitech aveva preso in carico da un altro suo azionista, ovvero Leonardo. Per loro, da metà giugno, dovrebbe scattare la cig straordinaria, mentre i sindacati chiedono a gran voce il riassorbimento dentro la ex Finmeccanica. Un piccolo esempio che basta a chiarire come sempre lì in Italia si torni, all’illusione che le vecchie partecipazioni statali possano assorbire manodopera ad libitum. Prendete i mille rivoli dell’ex impero Telecom Italia, rivoli ciclicamente forieri di crisi mozzafiato, da Sparkle a Seat Pagine Gialle. L’ultimo capitolo riguardava Italtel, che nata negli anni 20, dà tuttora da mangiare a 3mila famiglie da un po’ di tempo con il fiato sospeso. Fortunatamente, grazie alla sospirata intesa del 31 maggio, il pool di banche ora in maggioranza al fianco di Cisco cederà il passo a Exprivia, stellina pugliese della digital economy pronta a rilevare l’81% per 25 milioni di euro.

Nelle classifiche del Ministero dello Sviluppo Economico, il settore Ict-Telco ha il secondo maggior numero di tavoli di crisi aperti, 14, dietro solo all’industria pesante (26). E’ da sottolineare, peraltro, che la filiera soffre evidentemente anche a valle, perché tra i player della grande distribuzione di elettrodomestici è in atto un processo di razionalizzazione che non può non avere ricadute occupazionali. Dps Group, che gestisce i negozi a marchio Trony, ha per esempio avviato un piano di esuberi che coinvolge 163 risorse sulle 561 attive in Italia. Dietro l’Ict ci sono, a pari merito con 11 tavoli di crisi a testa, da un lato il tessile-abbigliamento, e dall’altro il comparto “cugino” dei prodotti elettronici e della componentistica elettronica. A parte occuparsi di grane apparentemente minori come la Flextronics Italy (65 interinali non rinnovati nell’hub ex-Alcatel di Trieste), il governo monitora dunque l’onda lunga delle grandi vertenze del recente passato, in primis Electrolux (312 uscite già avvenute da maggio 2014 a ora) e General Electric di Sesto San Giovanni (236 esuberi previsti tra 2016 e 2017), tra difficili ricollocamenti (o riassorbimenti) del personale e ancor più lente riconversioni dei vecchi siti industriali. E tuttavia di vertenze te ne spuntano che quasi non te ne accorgi: una delle ultime, si parla sempre di multinazionali, è la Marvell, che dalla Silicon Valley ha deciso di chiudere il polo di R&D di Pavia, lasciando a casa 78 lavoratori con qualifiche elevatissime, in gran parte cervelli ingegneristici con tanto di dottorato rientrati dall’estero proprio per sposare questo progetto.

A fronte di questo, sia chiaro, pure la old economy è ancora piena di spine. Agroalimentare, chimica ed edilizia vantano anch’essi una decina di procedure aperte al Mise a testa. Si tratta a volte di vicende, pure qui, magari non notissime al grande pubblico come quella della Tecnis, una società di costruzioni con sede a Catania e 500 dipendenti, caduta nel vortice delle tensioni finanziarie a causa di 40 milioni di insoluti degli enti pubblici, tra cui il Comune di Roma oggi guidato da Virginia Raggi. A questo quadro si aggiungono i problemi del grande filone logistica-trasporti, un filone che recentemente ha toccato duro l’Emilia-Romagna, con l’entrata di Artoni Trasporti, il 3 maggio scorso, in amministrazione straordinaria. Il caso Artoni è probabilmente la punta di un iceberg in una regione abituata sì a smottamenti industriali più o meno consistenti, ma non certo ai terremoti occupazionali, e che solo negli ultimi anni ha dovuto affrontare con una certa frequenza crisi sindacali da prima pagina, si pensi ai casi Selcom o Saeco.

Tuttavia il fronte più caldo, adesso, è probabilmente proprio Reggio Emilia. Lì, all’agonia di Artoni e dei colossi cooperativi, si aggiungono diversi interrogativi sulle ripetute acquisizioni di marchi storici dell’imprenditoria locale (MetaSystem, Brevini, Cellular Line) da parte di colossi esteri che, per usare una formula di rito, ragionano quasi sempre in maniera “globale”. Il precedente più preoccupante è la ex Terex di Lentigione di Brescello, recentemente acquistata dalla multinazionale finlandese Konecranes, che ha quindi annunciato l’intenzione di chiudere lo stabilimento da 158 dipendenti. Al momento, i tavoli istituzionali organizzati dalla Regione hanno ribadito l’obiettivo comune di salvaguardare i livelli occupazionali, e di garantire forme di sostegno pubblico alla continuità aziendale; intenti, tuttavia, che ancora non si sono tradotti in evoluzioni concrete.

A Modena, invece, tengono le dita incrociate i dipendenti della Edis, azienda di confezionamento figurine ceduta, nel 2016, da un erede della dinastia Panini a un gruppo veneto, che a febbraio ha poi annunciato 55 esuberi su 92 dipendenti. Sempre sotto la Ghirlandina, uno stato di “forte incertezza” viene denunciato anche dagli addetti della Trs Evolution, impresa di accessori per l’abbigliamento di proprietà del Gruppo Trussardi, dove il personale è già stato ridotto lo scorso anno da 130 a 90 unità, di cui 40 in cassa integrazione a zero ore. Scendendo verso la Romagna, una delle situazioni più rilevanti è ovviamente la Mercatone Uno: i commissari straordinari hanno spostato di un mese, al 16 giugno, la scadenza per la presentazione delle offerte per rilevare gli asset dell’ex impero dell’arredamento, che vanta oltre 3.200 dipendenti in tutta Italia.

Nel bolognese, intanto, dopo un biennio 2015-2016 ricco di paure, non mancano i segnali incoraggianti, piccoli e grandi: ad esempio, la recente intesa sindacale sulla BlQ-Ciemme (attiva nelle filiere del packaging e del medicale) permetterà di salvare 28 posti di lavoro ad Anzola, da un lato tramite il riassorbimento diretto nelle società controllanti, e dall’altro tramite un mini-workers buyout, visto che un gruppo di dipendenti diventerà socio della newco pronta a rilevare le attività industriali. Per il resto, si attende l’avverarsi delle promesse di ripartenza che sindacati e istituzioni hanno sentito pronunciare negli ultimi mesi su tanti, forse troppi fronti. In particolare, il 25 maggio ancora il Mise ha ospitato un incontro tra le parti sindacali concernente Industria Italiana Autobus. Quest’ultima ha confermato la volontà di mantenere lo stabilimento di progettazione e produzione ex-Bredamenarinibus, che oggi conta su 170 addetti; per 90 di loro è vicina la proroga della cassa integrazione dal 31 agosto al prossimo 31 dicembre.

Nicola Tedeschini