Tutti pazzi per i Pir esentasse. Nel 2017 la raccolta a 10 miliardi

Al massimo 30 mila euro l’anno, un tetto di 150 mila, una giacenza di 5 anni, un portafoglio diversificato, per un quinto destinato allo sviluppo delle Pmi: così i redditi dell’investimento sono tax-free. In regione 400 imprese hanno i requisiti giusti, ma solo 30 hanno “visibilità”

Bologna, 5 dicembre 2017

 

Una volta c’erano i cassettisti: investivano a lungo termine nelle imprese quotate più solide e riponevano i titoli azionari (allora di carta) nella cassetta di sicurezza, al punto da dimenticarsene, per la consolazione delle vedove e degli eredi. Poi l’investimento azionario è diventato compulsivo, le azioni entrano ed escono senza sosta nei portafogli e nei fondi, gli algoritmi sono i protagonisti del trading e decidono i quantitativi e i prezzi ai quali intervenire. Le maggiori soddisfazioni sono riservate a banche e gestori, che addebitano commissioni per ogni operazione. La maggior parte dei risparmiatori italiani gira alla larga da Piazza Affari: appena il 2% della ricchezza finanziaria delle famiglie, 80 miliardi di euro su un totale di 4 mila (il doppio del debito pubblico), è investito sul mercato azionario, inclusa la quota dei fondi di investimento.

Sull’altro versante le piccole e medie imprese: anche le più virtuose devono fare i conti con la porta stretta del finanziamento bancario, ora ancora più angusta dopo l’esplosione delle sofferenze e la stretta creditizia. Angusta e soprattutto più costosa, nonostante i bassi tassi di interesse, per via dei più elevati requisiti patrimoniali posti alle banche, che dovranno accantonare a capitale di garanzia almeno il 10% dei finanziamenti erogati alle imprese. Ma è bastata la leva fiscale, che si rivela straordinaria quando sia usata con obiettivi chiari e regole semplici, per consentire l’incontro ­_ finora storicamente “impossibile” _ tra il risparmio delle famiglie e le necessità di investimento delle Pmi.

L’esenzione totale è scattata il 1° gennaio 2017 solo per le persone fisiche, con limiti di investimento che preciseremo meglio; a primavera la platea degli investitori è stata estesa ai fondi pensione e alle casse di previdenza, senza limiti di importo. Dal 1° gennaio 2018 intermediari e assicurazioni potranno investire anche nelle attività immobiliari, prima tassativamente escluse e ora ripescate dalla legge di Bilancio 2018. L’acronimo non è armonioso, ma semplice: Pir, Piani individuali di risparmio. Sulla carta esistono dal 2011, ma senza incentivo non decollavano. In pratica l’Italia li ha “importati” lo scorso anno (copiando esperienze di successo in Francia e Gran Bretagna) attraverso quindici commi inseriti nella legge di Bilancio 2017 (n. 232/2016), che fissano le condizioni per il diritto all’esenzione totale dell’investimento.

La relazione del governo ipotizzava una raccolta di 1,8 miliardi di euro il primo anno, in crescita fino a 5,5 nel 2021, per complessivi 18 miliardi di euro investiti in cinque anni. Non era trascorso neppure il primo trimestre, con non più di dieci operatori già attivi, e la previsione annuale era già stata superata. A fine anno si conteranno almeno 10, forse 11 miliardi di euro investiti attraverso i 60 prodotti-Pir offerti dalle reti di vendita del risparmio gestito, intermediari finanziari e assicurazioni, non tutti ancora scesi in campo. Borsa italiana ha elaborato sei nuovi indici Pir “compatibili”. La sola Mediolanum, la più convinta del nuovo strumento (definito «rivoluzionario» da Ennio Doris), raccoglierà 3 miliardi di euro investiti in Pir. Assogestioni stima che nel 2021 la raccolta complessiva sarà di almeno 55 miliardi di euro, Intermonte si spinge a 68-70 nel 2022, di cui almeno 14 investiti nelle Pmi.

Lo scarto fra l’investimento in Pir e la quota effettivamente destinata alle Pmi salta all’occhio e rappresenta, nel bene e nel male, la principale caratteristica dei “Piani”, che non sono un nuovo strumento finanziario in aggiunta ai molti esistenti, ma un “contenitore fiscale” nel quale collocare uno o più prodotti finanziari o anche semplicemente la liquidità, poi investita dal gestore nel rispetto delle condizioni poste dalla legge per ottenere i benefici fiscali. I redditi di capitale (o eventualmente quelli classificati “diversi”), di regola tassati al 26%, sono fiscalmente esenti quando l’investimento si prolunghi per almeno cinque anni nel capitale di imprese italiane ed europee, con il limite di 30mila euro l’anno e un tetto massimo complessivo di 150mila euro. Poiché l’esenzione è riconosciuta anche agli investimenti intestati a minorenni, con il capitale messo a disposizione da un genitore, una famiglia tipo di 3-4 persone può investire in Pir fino a 90-120 mila euro l’anno e fino a 450-600 mila euro complessivi. Ovviamente nessuna persona fisica può sottoscrivere più di un Pir.

Intermediari e assicurazioni investono in modo da assicurare, tra l’altro, la diversificazione del portafoglio: possono scegliere qualunque strumento, ma nessun singolo titolo può superare il 10% dell’investimento totale. Inoltre non può essere superato il limite della partecipazione “qualificata”, che prevede determinate soglie (dal 2 al 25% del capitale o del patrimonio) a seconda della natura e della quotazione del titolo. La diversificazione, attenua il rischio dell’investimento. Almeno il 70% del totale deve essere costituito da strumenti, quotati o meno, emessi o stipulati con imprese fiscalmente residenti in Italia o nello Spazio economico europeo. Il resto è libero di dirigersi dove vuole il gestore. Del 70% “vincolato”, almeno il 30% (e cioè il 21% del totale) deve riguardare imprese non inserite, se quotate, nell’indice Ftse Mib “o equivalenti”.

Siamo arrivati al cuore del Pir: poco più di un quinto dell’investimento, e cioè un massimo di 31.500 euro a persona nell’arco di cinque anni (6.300 l’anno) deve rivolgersi a piccole e medie imprese non quotate, o quotate in mercati secondari tipo l’Ftse Star e l’Aim. Mercati che, non a caso, sono esplosi nel 2017, sia nelle quotazioni sia nel volume di scambi. Il segmento Star è a +48%, con scambi quasi raddoppiati nei primi nove mesi da 8,4 a 15 miliardi di euro. L’indice Aim si è incrementato del 30% e ogni giorno si scambiano titoli per 13-14 milioni di euro, il quintuplo del 2016, con un valore di 1,4 miliardi di euro nei primi tre trimestri, sette volte maggiore dei 200 milioni di euro del corrispondente periodo 2016. Con Pir per oltre 10 miliardi di euro a fine anno, almeno 2 miliardi finanziano le piccole e medie imprese. Non poco, ma su queste percentuali si è aperto un dibattito vivace, molto delicato.

I pessimisti temono innanzitutto che i Pir siano solo una boccata d’ossigeno per gli intermediari in genere, e in particolare per le banche in veste di gestori. Inoltre intravvedono già il pericolo “bolla”, ovviamente micidiale per la residua fiducia dei risparmiatori. L’intensità degli scambi ha preso il sopravvento (la lunga durata come condizione per godere dell’esenzione fiscale riguarda l’importo investito dal singolo risparmiatore, non la composizione del portafoglio, continuamente movimentato dal gestore), le quotazioni potrebbero all’improvviso diventare volatili, e i rendimenti degli investimenti più recenti azzerarsi o divenire negativi. Gli ottimisti ricordano che i Pir sono per definizione un investimento a medio-lungo termine, non bisogna farsi intimorire dalle oscillazioni. Nel tempo le azioni (solide) e i mattoni danno sempre soddisfazioni. Per la verità, nell’esperienza italiana, più i mattoni che le azioni. Senonché proprio l’ampliamento ai mattoni ha fatto storcere il naso a molti, che lo ritengono un tradimento della natura dei Pir, i quali – pur nel limite del 30%, modesto ma necessario per evitare rischi eccessivi ai risparmiatori – dovrebbero rivolgersi soprattutto alle piccole e medie imprese innovative e manifatturiere.

Altri capovolgono questa obiezione, e fanno notare che, almeno per ora, il numero di Pmi candidate a ricevere le attenzioni dei Pir è modesto, insufficiente per l’inatteso fiume di liquidità riversatosi sui Pir. Quindi gli immobili, che oltretutto rappresentano un’ottima occasione di investimento dopo anni di ribassi, svolgeranno proprio questa funzione regolatrice ed eviteranno le bolle, azionarie o immobiliari che siano. Solo il tempo dirà quale sia la spiegazione più corretta. Né si è azzardato a dirlo il governo, che tanto nella relazione illustrativa del disegno di legge di Bilancio, quanto nella relazione tecnica non dice una sola parola per motivare la cancellazione del divieto posto appena un anno fa agli investimenti immobiliari.

Immobili o meno, la piccola industria chiede più fondi. Alberto Baban, presidente (uscente) dei “Piccoli” e vicepresidente di Confindustria, già in marzo, alla presentazione dei primi tre fondi Pir di Eurizon (Intesa Sanpaolo) ha espresso un desiderio: «Sarebbe bello che la quota da destinare agli investimenti in Pmi italiane non si fermasse al 21%, ma che quella percentuale fosse soltanto un punto di partenza. Lo sviluppo è determinante per trainare la ripresa del Paese». In gioco c’è molto: «Questo cambiamento o ci trova preparati o ci elimina completamente dal quadro competitivo internazionale».

Scenari apocalittici a parte, esistono, in numero sufficiente, queste Pmi non soltanto bisognose di finanziamenti, ma con requisiti di solidità tali da non trasformare prudenti risparmiatori in investitori? Esistono, ma in piccole dosi. Il Rapporto Pmi Centro-Nord Cerved 2017 analizza gli indicatori di 111 mila Pmi delle tre macro-regioni, poco meno di 14 mila delle quali operano in Emilia-Romagna. L’indebitamento, gli oneri finanziari, la solvibilità, non sono tra i migliori. Ma nel decennio della crisi in regione c’è stata prima una grande selezione, poi un grande consolidamento. Il fatturato cresce a ritmi del 4%, i tempi di pagamento sono i migliori in Italia. Più di 400 Pmi sono innovative, oltre il 10% del Paese; più di 1.200 sono start-up innovative, ma la mortalità è tuttora elevata (ovunque) e non sembra il target migliore per un Pir. Insomma, bisogna selezionare molto. Esiste un vivaio già selezionato, in cammino sulla via della Borsa: sono le imprese del programma Elite di Borsa italiana, perfetto identikit delle imprese sulle quali deve investire un Pir. Include 694 società con ricavi superiori ai 50 milioni di euro, oltre 400 delle quali italiane. In novembre sono entrate nel programma 34 italiane, con 58 milioni di ricavi medi e un tasso di crescita del 13%. Due sono emiliano-romagnole (Emiliana Conserve e Sidac, ultima arrivata del distretto del packaging) e portano il totale della regione a 34, “solo” 8 delle quali hanno completato il percorso Elite.

Meno banca, più Pir. Lo spazio per crescere sembra esserci. Per moltiplicarsi occorre un po’ più di tempo.

Angelo Ciancarella