L’anno zero di Bologna Fiere fra holding e piano di sviluppo

Dopo il tormentato avvio della ricapitalizzazione, parte il restyling del quartiere che salva il contratto con Eima e Cersaie. Ma restano i nodi dell’integrazione con Rimini e Parma, del rapporto pubblico-privato, del rinnovo della presidenza Boni

di Mauro Giordano

 

La prima buona notizia del 2017 per la Fiera di Bologna è già arrivata; per la seconda bisognerà aspettare qualche mese in più ma potrebbe rappresentare una svolta storica per l’intero sistema fieristico dell’Emilia- Romagna. Se in via Michelino si può brindare per essere riusciti a non perdere Eima, il salone biennale delle macchine agricole che il 1° febbraio ha firmato il rinnovo del contratto e quindi resterà fino al 2030 sotto le Due Torri, in primavera potrebbe finalmente sbocciare il progetto della holding unica regionale che coordinerà le strategie comuni delle fiere di Bologna, Parma e Rimini. Ma andiamo con ordine e partiamo da Eima (prossima edizione nel 2018), che dopo gli allarmi per un clamoroso addio a causa delle carenze di spazi nei padiglioni bolognesi, rimarrà anche nel futuro una delle manifestazioni fondamentali nel calendario di BolognaFiere: più di 1.900 espositori provenienti da 40 Paesi sono i numeri dell’evento. L’obiettivo è stato raggiunto grazie all’aumento di capitale da 20 milioni di euro (13 dai soci pubblici e 7 da quelli privati) approvato dal Cda della Fiera alla fine del 2016 e al conseguente piano di sviluppo da 94 milioni di euro. Investimenti necessari per rimanere al passo, ampliare le metrature per le kermesse più grandi (oltre Eima, il Cersaie e il Cosmoprof) e guardare al futuro in vista della holding unica, progetto più volte rilanciato dal presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e dalla sua giunta. Kpmg, l’azienda incaricata di definire il progetto di integrazione avrà bisogno di più tempo del previsto e probabilmente potrebbe essere marzo il mese nel quale qualcosa tornerà a muoversi in quella direzione. Il presidente di Bologna Fiere, Franco Boni, per il quale prende sempre più quota l’ipotesi di un secondo mandato («la mia disponibilità c’è» commenta il diretto interessato), è stato «distratto» dall’approvazione del piano industriale e dalle altre partite aperte sul suo tavolo, mentre Lorenzo Cagnoni, numero uno del quartiere di Rimini, è reduce dalla fusione con Vicenza: l’alleanza veneto-romagnola ha di fatto dato vita al primo polo in Italia per numero di manifestazioni organizzate direttamente. Ma l’operazione è sembrata a molti osservatori una mossa per trattare da posizioni di forza la fusione emiliano-romagnola, che per il momento sembrerebbe finalizzata alla ricerca di strategie comuni più che a nuove compagini societarie. Il sistema integrato delle fiere, come quello degli aeroporti (altro obiettivo inseguito dalla Regione), sarebbe finalizzato principalmente alla promozione di azioni comuni, evitando eccessi di concorrenza, ma soprattutto dovrebbe servire per presentare all’estero un’offerta più forte, canalizzando le energie principalmente nella promozione sui mercati stranieri. Un esempio potrebbero essere i saloni con più appeal, come quelli legati al cibo (Cibus a Parma), alla bellezza (il Cosmoprof di Bologna), al salutismo e al fitness (il Wellness a Rimini). Sul marchio Cosmoprof si gioca una parte rilevante del piano industriale di BolognaFiere: fino al 2021 sono attesi investimenti fino a 50 milioni di euro per consolidare nel mondo Cosmoprof e Cosmopack con nuove iniziative in Vietnam e Malesia. È evidente che molto dipenderà dalle vicende di via Michelino, dove le acque sembrano essersi calmate rispetto alla tempesta dell’estate 2016 legata ai 123 esuberi tra i lavoratori del quartiere fieristico, prima annunciati e poi ritirati. Ma il clima resta teso soprattutto in merito ai rapporti tra soci pubblici e privati: motivo del contendere è la partecipazione degli azionisti privati all’aumento di capitale e il contestato conferimento di Palazzo degli Affari. La vicenda è nota: il presidente della Camera di Commercio, Giorgio Tabellini, nei mesi scorsi aveva dato la disponibilità a conferire l’immobile alla Fiera che ha bisogno di spazi per realizzare il piano di restyling e proprio su quell’area vorrebbe realizzare il nuovo, prestigioso, ingresso al quartiere. Nel disegno della Camera di Commercio il conferimento del palazzo (valore stimato dal Tribunale di 14,3 milioni, dopo uno scontro di perizie tra i due fronti) era lo strumento per diventare socio di maggioranza di Bologna Fiere. I soci privati, però, hanno fatto le barricate, non volendo rinunciare alla maggioranza e chiedendo che il nuovo statuto tolga ai soci pubblici la “golden share” che assegna loro l’ultima parola nella nomina dei vertici. La soluzione di compromesso raggiunta in autunno prevede di avviare lo sviluppo del quartiere anche senza entrare, per il momento, in possesso dell’area. Quindi con un aumento di capitale calibrato in modo che i soci privati restino al 51%, pur senza far mancare alla società le risorse per dare inizio ai lavori di ampliamento, con un nuovo padiglione e la ristrutturazione dei due padiglioni più obsoleti. L’unica cosa certa è che la Camera di Commercio ha già deciso di abbandonare il Palazzo degli Affari, annullando l’appalto per i lavori di ristrutturazione. Trasferirà altrove i propri uffici, forse in spazi del Caab non  utilizzati nell’ambito del progetto Fico. Per Palazzo degli Affari  restano in pista solo la vendita oppure il conferimento alla Fiera per assecondarne il piano di sviluppo.

Bper, Carife, Bcc e Casse romagnole. Una regione nell’occhio del ciclone banche

Il risiko innescato dagli ultimi decreti del governo e dalla crisi dei crediti deteriorati ripropone il nodo delle aggregazioni. Ma questa volta serviranno a salvare i troppi istituti pericolanti

di Nicola Tedeschini

 

Lunedì 14 dicembre 2015, Mario Draghi parlò a Bologna, alla festa per i 40 anni di Prometeia. L’intervento non mancò di un omaggio alla memoria di Nino Andreatta, di cui “è naturale sentire la mancanza” disse Draghi,”mentre si cerca di sventare in Italia il rischio di una crisi bancaria”.  L’euro-governatore, in sostanza, confermò l’entrata in uno stato d’emergenza deflagrato da nemmeno un mese, da quando, con un decreto domenicale, il governo Renzi aveva accelerato il salvataggio di quattro istituti dell’Italia centrale. Segnale d’allarme, la fine di un’ epoca: di fatto il decreto aprì le danze di un risiko bancario da troppo tempo atteso e che ora vive un climax al contrario inatteso, con l’epica battaglia Intesa-Mediobanca- Generali, l’aumento di capitale Unicredit, il salvataggio pubblico di Mps. Alla fine, entro l’estate tre dei quattro istituti (le nuove good bank Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti), con 546 filiali e 5mila dipendenti, finiranno per un solo euro in pancia a Ubi Banca, che già di suo vanta oltre 1.500 sportelli e quasi 18mila addetti. È stata anche, Ubi, la prima popolare a convertirsi in spa pura, in ottemperanza al decreto Renzi-Padoan del gennaio 2015. Quel decreto, oggi finito sub indice per i rilievi di incostituzionalità avanzati dal Consiglio di Stato, ha rappresentato la seconda condizione per la partenza del risiko, la terza essendo la nascita del Fondo Atlante nell’aprile 2016. Ma, contemporaneamente, il decreto ha scoperchiato il vaso di Pandora delle popolari nordestine non quotate, PopVicenza e Veneto Banca, e delle azioni trattate dalle stesse banche a prezzi folli. Dopo il salvataggio gemello operato da Atlante per 2,5 miliardi, le offerte di ristoro da poco varate a favore dei soci sono fondamentali perché i due istituti, affidati alle cure di Fabrizio Viola, prima si fondano tra loro e poi rientrino nel risiko. Il loro principe azzurro, tuttavia, non sarà Bper Banca: l’amministratore delegato, Alessandro Vandelli, secondo successore proprio di Viola, lo ha nuovamente escluso giusto il 28 gennaio, a margine dell’Assiom Forex tenutosi tra le mura amiche, a Modena. Per i prudenti emiliani va avanti il flirt con il Credito Valtellinese, che per combinare un buon matrimonio si è appena affidato a Mediobanca ed Equita. Secondo gli analisti che hanno alzato i target price dei titoli Bper fino a 6 euro per azione, il matrimonio in Valtellina genererebbe sinergie per un miliardo. Parallelamente, Unipol continua la ricerca di un partner stabile a cui conferire il proprio ramo creditizio, creando anche così un superpolo del bancassurance. Già oggi il gruppo finanziario controllato da Finsoe, holding delle coop emiliane, è primo azionista di Bper, appena sopra la soglia del 5% di temporanea sterilizzazione dei diritti di voto. In ogni caso, Bper ha ora in animo una leggera deviazione dall’asse retto della Via Emilia, giusto a un passo dal Veneto, per accalappiare la quarta good bank, CariFerrara, con un’ operazione simile a quella di Ubi: aumento preventivo del Fondo di risoluzione di BankItalia, 500 milioni di npl in pancia ad Atlante e sfoltimento, con un esodo incentivato ormai già in archivio, di 340 dipendenti estensi su 800 complessivi. Unendo tutto ai propri 11.400 lavoratori, ai propri 63 miliardi di attivo e a una raccolta diretta globale di oltre 45 miliardi, Bper aumenterà gli attivi del 5% e gli sportelli del 7%, blindando la sua leadership di mercato in una regione dove il pluralismo resta nondimeno vivace. Se Carimonte e la Fondazione Manodori meditano sul maxi-aumento della partecipata Unicredit, e la fondazione Carisbo deve comunque smobilizzare parte del suo investimento esclusivo in Banca Intesa Sanpaolo, la Fondazione CariParma è stretta in un patto di ferro con Crédit Agricole per il controllo sulla banca ducale. I francesi erano stati indicati dalla stampa come il possibile cavaliere bianco delle casse di risparmio romagnole, Cesena e Rimini, finite alle corde per stati patrimoniali ancora troppo gravati di crediti deteriorati, i famosi npl. A Cesena la maxi-perdita da 280 milioni del 2015 e la  conseguente ricapitalizzazione hanno già consegnato la maggioranza allo Schema volontario del Fondo di tutela dei depositi, altro strumento para-dirigistico con cui le autorità creditizie cercano di tamponare una crisi mai vista dal 1929 in poi. Un’operazione simile dovrebbe salvare anche Carim, che ha bisogno di 150 milioni di capitali freschi per restare in carreggiata e intanto ha già concordato con i sindacati un piano di tagli al personale per 90 unità. Se anche questa seonda operazione andrà in porto, non è escluso che per entrambe le casse romagnole si riaffacci una sistemazione definitiva sotto l’ala di CariParma. Come extrema ratio, proprio sotto Natale il governo Gentiloni ha estratto dal cilindro il mega-fondo statale da 20 miliardi, pensato soprattutto per prendere il controllo di un MontePaschi Siena ripudiato dai capitali di tutto il mondo. A lungo, si è pensato che il cavaliere bianco del Palio potesse essere proprio Ubi, ma solo se coniugata con la Bpm. La bella milanese, non senza una perdurante catena di strascichi giudiziari, ha invece preso marito nel Banco Popolare, un brand affermato lungo la Via Emilia grazie al legato del vecchio San Geminiano e San Prospero di Modena. Con il primo gennaio, è nato dunque un colosso da 180 miliardi d’attivo, circa 2.500 sportelli e 25mila lavoratori. Ma, a livello di immagine più che nei numeri, la vera sfida al primato regionale di Bper potrebbe venire da altri lidi, ossia dal sistema del credito cooperativo. Il mondo delle Bcc ha vissuto un proprio risiko parallelo a partire dal febbraio 2016, quando un secondo decreto Renzi-Padoan ha consacrato l’autoriforma varata da Federcasse. Il decreto obbligava tutte le Bcc d’Italia a federarsi in macro-gruppi di dimensione nazionale, o, come alternativa concessa solo alle banche con mezzi propri oltre i 200 milioni, a trasformarsi in spa, previo pagamento di una supertassa pari al 20% delle riserve. Ebbene: il primo superpolo da almeno 200 Bcc è nato attorno a Iccrea Banca, istituto del sistema Federcasse che già possiede il requisito normativo del patrimonio superiore al miliardo di euro. Un istituto dal forte accento bolognese, essendo guidato da Giulio Magagni, che al contempo sta traghettando Emil Banca, di cui è presidente, verso il salvataggio dei cugini reggiani del Banco Cooperativo Emiliano, dando vita alla seconda Bcc italiana dopo quella di Roma. Non è invece riuscito, Magagni, a convogliare verso il progetto Iccrea le banche cooperative trentine, che quindi creeranno un secondo supergruppo attorno a Cassa Centrale Banca. Il polo alternativo, forte di almeno un centinaio di aderenti, avrà una forte presenza sotto le Due Torri, vista l’entusiastica partecipazione di Banca di Bologna. Quest’ ultima, da sempre esterna al mondo Federcasse, è oggi presieduta da Marco Vacchi, presidente onorario di Ima, ed è guidata dal dg Enzo Mengoli. Non è detto poi che al secondo polo delle Bcc non possano aderire altri tre o quattro istituti della regione.

La rivoluzione di Industria 4.0 arriva fabbrica per fabbrica

 

Confindustria e Regione lanciano un piano di formazione a tappeto: in un anno saranno interessate oltre 700 imprese. Ma in Emilia Romagna sono già decine le aziende che hanno introdotto la nuova tecnologia; e alcune ne hanno fatto un business

di Natascia Ronchetti

 

Se ne parlò per la prima volta in Germania nel 2011, quando un gruppo di lavoro guidato da importanti multinazionali tedesche si mise al lavoro per presentare al Governo federale un piano per l’implementazione della quarta rivoluzione industriale. A distanza di oltre cinque anni la fabbrica 4.0 per una completa digitalizzazione dei processi produttivi, dell’organizzazione aziendale, degli approcci alla clientela e dell’accesso ai mercati ha fatto passi da gigante anche in Emilia Romagna; resta tuttavia una grande scommessa sulla quale non tutto il sistema manifatturiero ha già investito le risorse migliori. L’industria “intelligente”, completamente automatizzata, è la nuova frontiera della produzione. Per svilupparla il Governo italiano, nel 2017, punta a mobilitare quasi 24 miliardi di investimenti privati facendo leva su un mix di incentivi fiscali, formazione, sostegno al venture capital, diffusione della banda ultralarga. Ma la nuova fabbrica digitalizzata, vera novità di una rivoluzione che entusiasma e spaventa, richiede una riorganizzazione complessiva che anche in Emilia Romagna sta tracciando spartiacque. Certo, grandi big della meccanica come la modenese System, la reggiana Comer, l’imolese Sacmi, il gruppo Coesia o Ima Group di Bologna, colossi della packaging valley emiliano romagnola, si sono già collocati nel futuro di una completa digitalizzazione. E lo stesso hanno fatto o stanno facendo tante altre aziende emiliane e romagnole che hanno intuito per tempo la portata dell’industria 4.0 per la competizione sul mercato globale. Ma a fare la differenza, questa volta, non sono le dimensioni dell’impresa o il suo profilo internazionale, la sua capacità di investire su una forte presenza sui mercati esteri facendo tesoro della forte e storica vocazione all’export del sistema produttivo regionale. A tracciare una linea di confine, come ha dimostrato recentemente anche uno studio di Confindustria, è prima di tutto un deciso investimento sul capitale umano attraverso una formazione capace di accogliere tutte le sfide imposte da una automazione che non è semplicemente la stampa 3D ma si declina in big data, open data, internet of things, machine to machine, cloud computing, robotica. Rivoluzione dolce, ma pur sempre rivoluzione, della quale non hanno ancora compreso la portata un quinto delle aziende, con il risultato che oggi navigano a vista nel tentativo di archiviare la recessione e di imboccare, dopo otto lunghi anni, la strada della ripresa. A sua volta un altro quinto, all’opposto, ha già avviato i processi di riorganizzazione produttiva, riuscendo ad aumentare i ricavi e a consolidare la propria forza competitiva. Nel mezzo, tra i due opposti, ci sono tutte le imprese che comprendono la necessità di agganciare le nuove opportunità offerte dalla tecnologia e che iniziano cavalcare l’onda, ma non senza difficoltà. Uno scenario nel quale anche in Emilia Romagna come nel resto del Paese non sono i grandi fatturati a fare la differenza ma la propensione all’innovazione continua, un orientamento all’applicazione delle più avanzate innovazioni che richiede una virata nella politica di formazione professionale. Non è un caso se l’associazione degli industriali dell’Emilia Romagna insieme alla Regione ha varato per prima in Italia  un piano del valore di quasi 3,5 milioni di euro e della durata di 18 mesi per una attività di aggiornamento di quasi 23mila ore che coinvolgerà 700 imprese e tremila persone, tra imprenditori, manager e figure chiave delle aziende. Gli industriali sanno che il principale ostacolo è il salto culturale richiesto dal nuovo approccio alla produzione manifatturiera. Un salto di qualità che coinvolge tutte le filiere e le imprese, indipendentemente dalle dimensioni delle singole aziende. Ne sono consapevoli, secondo lo studio di Confindustria, anche la gran parte degli imprenditori, quell’80% di industriali che sanno di dover operare una svolta e chiedono politiche di accompagnamento per far proprie nel modo più evoluto le tecnologie digitali. Al centro di tutto ci sono le persone, il vero motore della quarta rivoluzione industriale. Per questo la Regione ha investito 10 milioni di euro di risorse europee per riposizionare il sistema produttivo regionale. Ma accanto alle iniziative pubbliche e associative, anche il privato comincia a muoversi, vedendo nella sfida di industria 4.0 un’ottima opportunità di business. A Casalecchio di Reno, per esempio, la Solair fondata dall’informatico inglese Tom Davis, unica azienda italiana rilevata dal colosso mondiale Microsoft, sviluppa sistemi avanzati di internet of things che consentono alle aziende di monitorare il funzionamento dei propri prodotti una volta venduti in tutto il mondo. E l’ex numero uno di Sacmi, ora amministratore di Marchesini Group, Pietro Cassani, ha fondato a Imola Ideas 4.0, un super team interdisciplinare di ingegneri che offre consulenza alle aziende per l’introduzione dei principi e delle tecnologie di industria 4.0. La vera sfida si gioca infatti  sull’alto valore aggiunto di una industria capace di coniugare le avanguardie dell’innovazione con l’autenticità del pezzo unico.