C’è la Brexit e un piano segreto dietro Bologna capitale del meteo

In giugno il voto decisivo per trasferire nel capoluogo emiliano il data center del Centro Meteo Europeo. Un piccolo passo, che però potrebbe preludere all’arrivo sotto le Due Torri di tutta l’attività scientifica europea in materia di clima, previsioni metereologiche e inquinamento. Tutto dipende da come andrà il negoziato per l’uscita di Londra dalla Ue. 

Si è fatto tanto can can sulla scelta di Bologna come sede del Centro europeo di meteorologia Ecmwf (Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine). In realtà il quartier generale e tutta la parte scientifica dell’Ecmwf resta a Reading, in Gran Bretagna, con la gran parte dei suoi 300 scienziati. A Bologna approderà solo il centro di calcolo, cioè il cervellone con un manipolo di informatici per farlo funzionare. Quindi da un lato la notizia si sgonfia. Dall’altro, però, ha una valenza ancor maggiore nel quadro delle grandi manovre collegate alla Brexit. Vediamo perché.

Il Centro europeo di Meteorologia dà lavoro a circa 300 scienziati e si occupa di elaborare previsioni a medio termine (10 giorni) per tutti i Paesi europei membri dell’Ue e per molti altri extra Ue come Turchia, Svizzera, Islanda, Norvegia e nazioni della ex -Jugoslavia. E’ una sorta di fornitore all’ingrosso di previsioni meteo (la parte più complessa e sofisticata), che poi ogni servizio nazionale utilizza per servire aeronautica, protezione civile, trasporti, agricoltura, navigazione e militare. Si tratta quindi di una istituzione intergovernativa che non c’entra nulla con l’Unione europea. Decide un Council in cui sono rappresentati tutti i Paesi membri con due esponenti. Ogni decisione viene presa solo all’unanimità. L’attuale sede a Reading è satura e non ampliabile, quindi non può ospitare il nuovo supercomputer con storage e trattamento dati, che viene sostituito e aggiornato ogni 4-5 anni ed è sempre fra i primi 30 più potenti al mondo. La Gran Bretagna ha presentato tre progetti per ricollocarlo, ma le valutazioni tecniche hanno optato per Bologna dove c’è lo spazio adatto al Tecnopolo dell’ex Manifattura Tabacchi e dove ci sono le competenze e le professionalità sui big data, soprattutto per via del Cineca e del centro di calcolo dell’ INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). Al nuovo centro lavoreranno in tutto 25-30 informatici e nessun meteorologo. In parte saranno trasferimenti di personale da Reading. Ma chi rifiuterà il trasferimento sarà sostituito da nuovo personale reclutato a Bologna dove il materiale umano specializzato è ritenuto di ottimo livello. La decisione finale sarà presa solo in giugno dal Council. La Gran Bretagna ha già detto che darà voto favorevole solo a condizione che sia specificato che nessun altro settore del centro potrà più essere trasferito fuori dal Regno Unito. La clausola è inaccettabile. Ma serve a spiegare i retroscena e i retro pensieri, che si intrecciano con il negoziato per la Brexit. L’Unione europea, infatti, potrebbe mobilitare in un secondo tempo i suoi rappresentanti nel Council, che sono la maggioranza, per procedere al trasferimento in toto del centro all’interno dell’Ue appena Londra avrà divorziato da Bruxelles. Bologna a quel punto sarebbe la sede super favorita, avendo già il data center e vantando la maggior concentrazione di competenze meteorologiche in Italia (Arpa, Cnr e Centro per i cambiamenti climatici Cmcc, un’eccellenza internazionale negli studi modellistici sul clima futuro). L’Unione poi dispone di un’altra arma da utilizzare nel negoziato. L’Ecmwf, infatti, si è aggiudicato due bandi (Clima e Inquinamento) dei sei (anche Terra, Mare, Sicurezza militare e Protezione civile) del progetto scientifico europeo Copernico per l’osservazione del pianeta dallo spazio. E’ uno dei progetti scientifici più importanti al mondo e vale diversi miliardi di euro nei prossimi 5 anni. Quando la Gran Bretagna uscirà dall’Europa sarà difficile giustificare finanziamenti europei tanto generosi erogati a favore del mondo scientifico di un Paese extra Ue. Quindi al rinnovo dei bandi  i casi sono due: o resteranno all’Ecmwf, ma solo se la sede sarà rimasta all’interno dell’area Ue quindi fuori dalla Gran Bretagna, oppure saranno riassegnati a una nuova istituzione scientifica europea, che potrebbe nascere ad hoc, proprio a Bologna. Anche perché proprio Bologna è sede del Cmcc, il cui fondatore, il climatologo Antonio Navarra dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, è anche rappresentante dell’Italia nel Council del Centro meteo europeo. Ovvio che nessuno svelerà mai i retroscena di una trattativa così riservata fino a quando non sarà formalizzata almeno la scelta di Bologna per il «cervellone» dell’Ecmwf. La questione è troppo delicata anche per i riflessi sulla politica interna britannica, dove le opposizione anti Brexit potrebbero trarre spunto dalla perdita del Centro meteo, oltre a quella, scontata, dell’Agenzia europea del farmaco, per lanciare un letale atto d’accusa al governo e a chi negozierà la Brexit.

Se lo scenario per Bologna sarà quello vincente si apriranno i rubinetti  e scorreranno flussi importanti di denaro pubblico. Ma per la città, di riflesso anche la regione, si avrà pure una notevole ricaduta sul capitale sociale ed umano di un’industria che conta numeri significativi: in Emilia-Romagna si concentra il 70% della capacità di calcolo e di storage nazionale e queste terre ospitano 1.700 ricercatori impegnati sui Big data. Senza dimenticare la Rete Alta Tecnologia con 82 laboratori di ricerca e 14 centri per l’innovazione, la struttura coordinata da Aster. Oltre ai già citati Arpa, Cmcc, Cnr qui hanno casa Enea, Lepida,  e infine l’ Istituto europeo di tecnologia-Climate Kic la più rilevante community europea per la ricerca e l’innovazione climatica che ha aperto da poco una sede a Bologna. Infine in città è attivo uno dei due corsi di laurea in meteorologia presenti in Italia. Un giacimento di conoscenze destinato a crescere esponenzialmente. La terra è fertile visto che a livello nazionale l’Emilia-Romagna è la seconda regione in termini di persone impiegate in attività di Ricerca&Sviluppo, oltre 52.000, ed è la prima per numero di persone impiegate in questo settore ogni 1000 abitanti. Delocalizzare a Bologna tutto il Centro europeo di meteorologia porterebbe buste paga e preziosi posti di lavoro. Sono innegabili poi i vantaggi competitivi per le imprese che potrebbero usufruire con più facilità delle conoscenze e del capitale cognitivo generato da una così alta concentrazione di cervelli. A iniziare da un settore primario come l’agricoltura che sempre più si avvale dei contributi meteo per la pianificazione dei suoi interventi nei campi. Parliamo di agricoltura di precisione che grazie ai dati meteo ottimizza le risorse, evita gli sprechi e aumenta la redditività delle imprese agricole. Le previsioni hanno un forte impatto sulla pianificazione agricola e l’incremento stimato delle produzioni  dovuto ad una migliore conoscenza del fattore climatico è  di circa il 5%. Più tutto l’indotto delle società di servizi che sviluppano applicazioni e software legate all’usabilità dei dati meteo per le imprese: dai programmi per calcolare il peso e il livello dei trattamenti per le piante alle mappe satellitari da montare sulle macchine agricole. Altri effetti positivi della presenza del Centro sono legati all’aumento dei flussi di turismo scientifico alimentati da visite di delegazioni straniere, corsi di aggiornamento e formazione per meteorologi, informatici, esperti ed operatori di Big data, infine congressi e convegni. Tutta una serie di attività che permettono di attirare flussi sia nazionali sia internazionali e qualificare il settore dell’ospitalità cittadina. Insomma, le opportunità per Bologna e l’Emilia-Romagna date dal Centro Meteo sarebbero enormi e, almeno su questo fronte, la Brexit potrebbe dare una mano.

Gian Basilio Nieddu

Ora salta anche Unieco. Ecco il bilancio della crisi

In liquidazione coatta il colosso cooperativo reggiano, ultima vittima dell’ecatombe cooperativa. Ma la lunga recessione lascia sul campo cadaveri e feriti anche tra i gruppi privati come Artoni, l’ex Bredamenarinibus, Selcom, Paritel, Stampi. E non risparmia le controllate di multinazionali come Saeco e Berco.

 

Qualcuno, davanti ai microfoni di TeleReggio, è scoppiato in lacrime: e non poteva essere altrimenti, in quello che è già mediaticamente dipinto come il funerale di un’azienda con 133 anni di storia. E’successo il 29 marzo quando Unieco, erede di una delle più antiche storie cooperative italiane, al circolo Pigal di Reggio Emilia ha ufficializzato ai soci la liquidazione coatta amministrativa. Non si ferma subito, l’azienda, «ma vanno avanti solo i cantieri privati, per quelli pubblici non abbiamo i requisiti: da lunedì 3 aprile siamo tutti a casa, io compreso» ha spiegato Ivan Gianesini, membro di un cda che non ha potuto, a dire della presidentessa Cinzia Viani, liberare Unieco dalla «zavorra del passato».

Ora per i 340 lavoratori, e le 200 società controllate, «c’è da aspettare che Coopsette faccia scuola», come ha spiegato, ancora a TeleReggio, uno di quei pensionati che pure, nel prestito sociale, hanno messo anche decine di migliaia di euro. Eh già, proprio lei, Coopsette: l’eterna cugina della Bassa, ed eterna promessa sposa. Tutto, tra le due aziende, pareva parallelo: il primo concordato in bianco, chiesto da entrambe nel 2013, con la nuova normativa del decreto Salva-Italia ancora fresca; i consulenti legali; la procedura di ristrutturazione «182-bis». Tutto propendeva per il matrimonio morganatico, per creare un’ Unisette da 2.300 soci e 3 miliardi di portafoglio ordini. E invece si arrivò al 2015, e lì l’assemblea di Unieco, reduce dalle mancate nozze con la Cmb Carpi, si spaccò in modo alquanto inedito per il movimento. Tutto bloccato, persino le ipotesi di joint venture parziali. Lo storico presidente Mauro Casoli cedette il passo alla Viani, e come direttore generale, caso emblematico, si avvicendarono presto due uomini estranei alla cooperazione, ovvero Antonio Barile, ex Benetton, e Alberto Franzone, proveniente da un colosso mondiale del restructuring come Alvarez&Marsal.

Non è bastato: l’infelice parallelismo è giunto fino al punto più drammatico. Coopsette, vittima anche di qualche delicata partita giudiziaria, finì in liquidazione già a ottobre 2015, a pochi giorni da un’udienza che poteva portare al fallimento, e con 1300 creditori che secondo i media attendevano 800 milioni di euro. Ancora nelle stime di Gianesini, il fardello attuale del gruppo Unieco è invece inferiore, circa 660 milioni, la gran parte dovuti a un pool di banche, e circa 230 solo al nazionalizzando MontePaschi di Siena. E sarebbe stata proprio la vacatio registratasi lo scorso autunno in testa a Mps a far sì che nessuno si prendesse la responsabilità di rifinanziare Unieco, di conseguenza stretta nella morsa letale della clessidra e di un patrimonio netto ormai negativo per oltre 80 milioni. Era tardi, quando il management ha tentato lo sdoppiamento: di qua la vecchia azienda, da ripulire con un nuovo concordato chiesto in bianco il 10 gennaio, e confidando in una cessione “amichevole” di qualche asset, ad esempio la divisione Ambiente alla multiutility Iren; di là una newco con tutti gli immobili ancora da vendere, e con il debito bancario, da girare a un’inedita cordata anglo-italiana formata dai fondi Oxy e Attestor e da una finanziaria di Legacoop. E’ stata quest’ultima, proprio come per Coopsette, a invocare la serrata: e così il matrimonio infine si farebbe tra poveri, un matrimonio allargato per creare un unico polo delle costruzioni con i pezzetti in bonis dei vecchi player.

C’è, insomma, chi medita l’ampliamento, o la ripetizione, del progetto Sicrea, che dal 2012 al 2015 radunò sotto una nuova spa pura il meglio di quattro coop reggiane e modenesi ormai in disarmo. Fu chiaramente un progetto pilota sostenuto sia dalla Lega sia dalle amministrazioni locali, con un pesante ma efficace utilizzo degli ammortizzatori sociali. Recentemente, lo si è tentato di replicare, su scala regionale, nel settore porte e serramenti, ma senza successo. È stato però un primo derivato di Sicrea, il Consorzio Integra, a consentire la messa in sicurezza del bolognese Ccc. Perché le coop hanno avuto i loro problemi lungo tutta la via Emilia: a Parma la Di Vittorio e, in agricoltura, la Copador; nella Bassa Romagna la Cesi e la Iter; da ultimo, la ravennate Acmar, con le 104 lettere di mobilità che, partite già da un mese, saranno oggetto di una protesta sindacale il 5 aprile.

L’ultimo caso riporta nella città del Tricolore, dove, nelle stesse ore in cui Unieco rinunciava al concordato in bianco, il Ccpl, maxi-consorzio di produzione industriale, riusciva invece a strapparlo, convincendo il tribunale con un piano quinquennale di razionalizzazione societaria e di dismissioni che dovrebbe sanare buona parte dei 150 milioni di esposizione. La disfatta del modello mutualistico ha rappresentato è solo uno dei fili conduttori delle crisi aziendali in Emilia-Romagna.

Ancora la provincia reggiana, sponda Guastalla, trattiene il fiato per la Artoni Trasporti, un operatore da oltre 7 milioni di spedizioni all’anno per conto di 13mila aziende clienti, e che solo nella capogruppo valeva oltre 200 milioni di fatturato. Evidentemente, però, non si è mai completato quel percorso di ristrutturazione debitoria avviato con le banche nel 2012, e con l’inizio di quest’anno è saltato, pure qui, il matrimonio con il cavaliere bianco, l’alto-atesina Fercam. O meglio: Fercam ha sì firmato davanti al Mise, ma solo per l’ affitto di un ramo d’azienda; 14 filiali sulle 40 di Artoni, e 140 dipendenti su quasi 500. Tutti gli altri restano nel limbo, al pari dei circa 3mila fornitori e subfornitori. Il 5 aprile, davanti a un altro Ministero, quello del Lavoro, Artoni cercherà il rinnovo degli ammortizzatori sociali; con l’onere, tuttavia, di provare la continuità aziendale, che si baserebbe sul contoterzismo svolto in favore di Fercam. Altrimenti, come racconta in questi giorni Il Sole 24 Ore, c’è il rischio, ad andare bene, dell’amministrazione straordinaria.

Un altro filo conduttore delle crisi aziendali in regione riguarda i mutevoli umori delle multinazionali. A volte, magari, aiutano a salvare il patrimonio industriale italiano, come gli apparati meccanici ed elettronici targati Selcom. Anche a Castelmaggiore il copione dell’autunno caldo ha incluso procedura concorsuale, picchetti e cassa integrazione; poi, sotto Natale, a far tirare il fiato ai 360 dipendenti, che diventano 770 con le altre sedi italiane, è arrivata la proposta d’acquisto dell’olandese Roj. Alla Berco, i duri colpi della concorrenza asiatica inquietano il padrone tedesco, il colosso Thyssenkrupp. Lì, nella bassa ferrarese, si fabbricano componenti per le macchine movimento terra, destinate soprattutto a cantieristica e industria mineraria. Ancora nel 2013, i lavoratori erano oltre 2mila: ma la prima tornata di 468 esuberi consumatasi allora non è bastata a risollevare un conto economico che, nei quattro esercizi seguenti, ha registrato una marginalità lorda risicata e 180 milioni di perdite complessive, a fronte di un fatturato annuo di 300 milioni. E così, lo scorso ottobre, è partito il nuovo piano da 365 tagli su 1651 addetti, senza contare il polo veneto. Fortunatamente, l’accordo sindacale di gennaio ha consentito di ridurre, di poco, gli esuberi e di anticipare gli stessi con un piano di mobilità incentivata volontaria. L’azienda inoltre, a fronte di una maggiore flessibilità nei turni, ha rinunciato al previsto outsourcing di parte delle attività industriali; e infine, smentite le voci di una vendita agli indiani di Tata, ha proceduto alla fusione con la Forging Group che dovrebbe, per ora, porre fine alla crisi.

Del resto, come il segretario ferrarese della Uil Paolo Da Lan disse al Sole lo scorso 14 gennaio, quella non era solo la crisi di un’impresa, «ma di tutto un sistema locale che vive attorno all’azienda». Proprio come la Saeco per Gaggio Montano: il tramonto delle fabbriche-paese è uno dei fattori che contribuiscono a cambiare la geografia industriale dei nostri Appennini, in particolare quello bolognese. La controllante Philips preferiva la Romania, costringendo 243 operai, oltre metà della forza lavoro complessiva, all’epica protesta del 2016. In questo caso, l’autunno ha portato l’accordo sindacale e la consueta cassa integrazione. E con il nuovo anno sono arrivate sia l’offerta della bergamasca N&W Global Vending, con dietro il fondo statunitense Lone Star, sia il passaggio, per una ventina di lavoratori, a una newco voluta da Alberto Vacchi, ovvero mister Ima.

Vacchi ci ha poi riprovato, dicendosi pronto, insieme all’amico-concorrente Maurizio Marchesini, a riassumere almeno 15 dipendenti della Stampi di Monghidoro per trasformare l’azienda in un fornitore dei loro colossi del packaging. Alcune tecnicalità hanno messo in stand-by la proposta, e al momento l’affetto di Gianni Morandi non basta ai 62 lavoratori della Stampi, che produce bobine elettriche e ha appena compiuto un anno di forzata inattività: la cassa è in scadenza, e a una parte degli addetti potrebbe perfino essere negata la Naspi, ossia il vecchio assegno di mobilità. Fiato ancora sospeso, dunque, e su questa falsariga si potrebbe pure andare avanti, parlando della crisi del gruppo Paritel sempre nel bolognese, che coinvolge Cevolani e Imt e rischia di trascinare anche la Demm di Porretta Terme. E ancora sotto le Due Torri i sindacati lanciano l’allarme sull’ex Bredamenarinibus che potrebbe chiudere a fine anno lasciando a casa 174 lavoratori, oggi in gran parte in cassa integrazione. «Il rischio è quello di perdere 500 posti di lavoro e non sarebbero recuperabili», spiega il segretario regionale Fiom Emilia-Romagna Bruno Papignani.
Non che in pianura Mediopadana, come visto, se la passino meglio. Altra situazione delicata è per esempio quella della Terex, le ex Officine Reggiane dove l’attuale proprietà americana ha cinque stabilimenti saturi in Europa e potrebbe smantellare di Brescello. La Bassa modenese ha pagato sia il post-terremoto sia il fatto che qualche importante player industriale è incappato in guai giudiziari, altro fattore scatenante delle crisi aziendali pure qui, nella onesta Emilia-Romagna. Una maledizione ciclicamente destinata a colpire la prosperità del tessuto industriale parmense, da Parmalat alla Parmacotto passando per la Guru. Ma questo, forse, è ancora un altro capitolo.

Nicola Tedeschini

Il private equity scopre l’Emilia. «Ma questa regione vale di più»

One Equity Partners investe almeno 100 milioni di euro nella modenese Usco. Per il Rapporto Aifi nel 2016 i fondi hanno investito  350 milioni, un quarto in più rispetto al 2015, mentre a livello nazionale l’aumento è stato del 77%. Siamo  al secondo posto dopo la Lombardia per numero di operazioni (32 su 322, il 10%)

A forza di movimentare terra in tutto il mondo, la modenese Usco ha richiamato l’attenzione di uno dei maggiori fondi internazionali di private equity, One Equity Partners, braccio operativo della banca d’affari JP Morgan. Il 3 aprile scorso ha comunicato di aver rilevato il 49% del capitale del gruppo meccanico che ha sede in Emilia-Romagna ma produce anche in Spagna, Sud Corea e Cina, è presente con una propria rete commerciale in 40 paesi ed esporta in oltre 100. Occupa 1.350 dipendenti e nel 2016 ha fatturato 400 milioni. L’operazione è avvenuta in parte rilevando azioni della società, in parte attraverso un aumento di capitale riservato. A conti fatti, benché il dato ufficiale sia al momento ignoto, l’investimento non è inferiore ai 100 milioni di euro, ma potrebbe anche essere superiore. Non sono numeri stratosferici, ma nel mercato del private equity in Emilia-Romagna rappresentano da soli un terzo delle operazioni di un anno intero.

L’operazione modenese, e la presentazione, avvenuta appena pochi giorni prima a Milano, dei dati 2016 del private equity in Italia sono l’occasione per approfondire questo particolare segmento degli investimenti finanziari nell’economia reale, in quel segmento fondamentale rappresentato dalla media impresa in sviluppo o della start-up altamente innovativa, in entrambi i casi con una dimensione e una struttura non ancora dimensionate per il mercato azionario.

Secondo i dati Aifi (l’associazione italiana tra gli operatori e i fondi di private equity, venture capital e private debt) gli investimenti finanziari nel capitale di rischio delle imprese hanno avuto nel 2016 un’impennata in valore, superando gli 8 miliardi di euro: un ordine di grandezza quasi doppio rispetto al 2015 (da 4,6 a 8,2 miliardi, + 77%), nonostante la leggera contrazione nel numero delle operazioni, da 342 a 322. L’Emilia-Romagna, con 350 milioni di investimenti, è al 5° posto; e con il 10% delle operazioni (32) supera il Veneto e conquista il secondo posto tra le regioni italiane, sia pure a distanza stratosferica dalla Lombardia (137, più del quadruplo e il 43% del totale) e nonostante il minor numero di operazioni rispetto alle 39 del 2014 e alle 34 del 2015.Ma è un trend generale. Il settore del private equity, che include varie forme di finanziamento diretto degli operatori specializzati nel capitale di rischio di imprese non quotate, si consolida: il valore medio delle operazioni è in aumento, perciò il totale degli investimenti cresce, mentre il numero di operazioni si riduce (-6% nel 2016). Il 70% degli investimenti, in valore, è effettuato da operatori internazionali, a conferma della «ritrovata attrattività delle imprese italiane da parte degli investitori esteri», ha sottolineato Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi.

Un’attrattività basata sulla competitività e l’innovazione delle imprese migliori: in parte note e con una storia famigliare alle spalle, ma patrimonialmente non così solide da poter continuare da sé; in parte giovanissime o appena oltre la soglia delle start-up, nate per gemmazione o nell’indotto dei tanti distretti italiani, con buone idee, brevetti innovativi e tecnologie 4.0, ma bisognose del carburante finanziario.

È in larga misura la fotografia della manifattura emiliano-romagnola, che negli ultimi anni ha trovato anche nuovi filoni produttivi e di ricerca, come il biomedicale di Mirandola nel modenese; o ha innovato settori tradizionali come l’agroalimentare, alla scoperta di nuovi mercati nel mondo, Stati Uniti inclusi (dazi permettendo, d’ora in poi). Ambiti, tutti, che hanno già riscosso negli ultimi 5 anni l’attenzione degli investitori e dei fondi stranieri, e che dal 2015 hanno anche trovato ulteriori veicoli capaci di aggregare i capitali in cerca di investimenti, come i “fondi di fondi” promossi dal Fondo italiano di investimento.

Nel 2016 le operazioni oltre la soglia dei 150 milioni di euro sono state 17, il 5% del totale; ma in valore rappresentano i tre quarti del totale (quasi 6,1 miliardi di euro). In questo l’Emilia-Romagna arranca un po’, perché è superata, oltre che dalla solita Lombardia (con 5,7 miliardi e il 70% del totale), anche da Trentino-Alto Adige, Lazio e Veneto, tutte fra il 5 e il 6%. L’Emilia-Romagna rappresenta il 4%, con circa 350 milioni di euro, in crescita di un quarto rispetto ai 273 milioni di euro dello scorso anno.

È una quota significativa, ma è inferiore alle potenzialità (specie in valore assoluto), in un anno record in fatto di investimenti. Ed è lontanissima dai 761 milioni di euro del 2014, che tuttavia aveva beneficiato di due operazioni straordinarie nel settore agroalimentare: la partecipazione del Fondo strategico italiano (gruppo Cassa depositi e prestiti, dal 2016 ridenominato Cdp Equity) alla ricapitalizzazione di Inalca per 165 milioni di euro; e il buy out da 300 milioni di euro del fondo europeo Chartherhouse Capital Partners per l’80% della reggiana Nuova Castelli, il maggiore esportatore di formaggi Dop italiani, Parmigiano Reggiano in testa.

Il consuntivo elaborato da Aifi segmenta le tipologie di operazioni, proprio per mettere in evidenza le diverse caratteristiche degli investimenti e delle imprese che ne beneficiano, nonché i trend di crescita. Per esempio l’investimento di minoranza realizzato attraverso un aumento di capitale riservato, finalizzato all’espansione geografica o merceologica e definito expansion, è più che raddoppiato nel 2016, nonostante il numero di operazioni sia sceso da 76 a 67: 710 milioni di euro, a +132%. Si tratta dell’incremento più significativo in percentuale, ma come si vede in valore rappresenta una fetta inferiore al 10%. E così per le altre tipologie, tutte in crescita ma dal valore contenuto, come il venture capital che ha superato di poco la soglia dei 100 milioni di euro: +40%) con 128 operazioni: in media, investimenti (definiti early stage) inferiori al milione di euro.

La parte del leone continua a farla il classico buy out, cioè il finanziamento dell’acquisizione dell’impresa, tutta intera o nella sua maggioranza, da parte di imprenditori (talvolta lo stesso management) che pianificano il rimborso attraverso i flussi di cassa generati dallo sviluppo e dalle attività future. A parità di operazioni rispetto all’anno precedente (da 99 a 98) è cresciuto in valore dell’83%, fino a 5,8 miliardi di euro, il 70% del totale di 8,2 miliardi di euro.

Il totale degli investimenti nel 2016 non rappresenta soltanto un record interno, ma si pone ai vertici anche nel confronto europeo. Lo ha ricordato a Milano Francesco Giordano, partner di PwC Transaction Services, che ha collaborato all’analisi dei dati per il rapporto Aifi 2016: «Il record assoluto per l’Italia è frutto di grandi operazioni realizzate da player internazionali, grazie alle quali il nostro mercato del private equity ha superato la Germania e si pone immediatamente alle spalle della Francia, al secondo posto nell’Europa continentale. Purtroppo il numero delle operazioni rimane ancora fortemente limitato rispetto agli altri mercati» ha osservato Giordano, tuttavia fiducioso sulle prospettive, anche grazie alla Brexit: «Se gli operatori internazionali decideranno di stabilire in Italia un proprio presidio, questo potrebbe rappresentare un driver positivo per l’incremento degli investimenti».

Se gli investimenti, benché inadeguati, crescono, la raccolta 2016, invece, ha segnato una battuta d’arresto, con 1,3 miliardi di euro e un pesante arretramento del 47%. Si tratta in realtà di un rimbalzo e di un riallineamento ai valori precedenti, tenuto conto che l’incremento del 2015 non era strutturale, ma determinato da alcune grandi operazioni di fondi italiani, come quelle già ricordate di Fii. Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi (e anche di Fii), sempre in occasione della presentazione dei dati 2016, ha rilevato l’inadeguatezza della raccolta, sia rispetto alle potenzialità del mercato finanziario italiano, sia rispetto al contesto internazionale. Dal punto di vista dell’analisi territoriale degli investimenti, comunque, l’andamento della raccolta interna è questione di relativo interesse. Quel che al mondo non manca, in questi anni di crisi, è un’imponente liquidità a caccia di investimenti potenzialmente interessanti e con remunerazioni soddisfacenti per gli investitori, i quali sono per definizione internazionali (perché anche i capitali raccolti in Italia seguono poi le vie del mondo, per scegliere gli investimenti).

Va infine considerato il private debt, cioè l’indebitamento non sul mercato, di tipo obbligazionario; i cosiddetti minibond hanno ricevuto un occhio di riguardo sia sul piano legislativo che istituzionale, con il fondo promosso dal ministero dell’Economia insieme con Cassa depositi e prestiti (ma gli operatori internazionali finanziano i due terzi delle operazioni, in valore). Si tratta di un segmento per ora molto contenuto, stimato in 378 milioni di euro (meno del 5% del private equity e degli altri investimenti di capitale). Tuttavia è anch’esso in forte crescita, sia in valore (+87% sul 2015) che in numero di operazioni (65, con un incremento del 51%). Il peso dell’Emilia-Romagna è in linea con quello nel settore maggiore: 8 operazioni su 65 sono basate in regione. Ma dietro la Lombardia (22 operazioni) spicca il Triveneto, che in complesso fa addirittura di più: 29 operazioni, con il Trentino-Alto Adige a quota 15 e il Veneto a 12.

La finanza corre, si sa; ma quando finanzia l’economia reale anche lei ha bisogno di tempo. Poi i risultati si vedono. Forse, oltre al bilancio annuale aggregato su nuovi investimenti, raccolta e disinvestimenti, bisognerebbe aggiornare l’archivio e vedere l’evoluzione nel tempo di un settore che ha in portafoglio 1.270 s0cietà italiane, con 400mila dipendenti e oltre 100 miliardi di fatturato. Tra le mille, citiamo solo quella ricordata da Innocenzo Cipolletta in una intervista di qualche mese fa: «Il Fondo italiano investe in Emilia-Romagna dal 2011: la prima operazione fu l’acquisto di un terzo del capitale della Comecer di Castel Bolognese, specializzata nella produzione e nel dosaggio di radiofarmaci. Nel 2015 ha triplicato il fatturato, per il 90% esportato in 100 paesi. Allora, con soddisfazione, Fii ha disinvestito» ed è subentrata Principia Sgr, attraverso il suo fondo specializzato nel settore sanità e salute, che oggi detiene il 45%, con l’obiettivo di medio termine di portare l’azienda in Borsa.

Angelo Ciancarella

Open Fiber cavalca la banda ultralarga

La società di Enel e Cdp vince il bando Infratel per cablare le aree «bianche» dell’Emilia Romagna e investe altri 238 milioni in accordo con la Regione per portare la fibra ottica nelle abitazioni delle 10 principali città. Entro il 2018 il 75% delle case saranno collegate a 1 gigabite

di Gian Basilio Nieddu

 

C’è da tenere il passo con l’Europa Digitale e con i tempi della Gigabyte Society. L’Italia, però, arranca e la Commissione Europea, nell’ ultima relazione semestrale,   usa la matita rossa per sottolineare come, secondo dati del 2016, solo  il 67% degli italiani usi regolarmente Internet contro una media Ue pari al 79%. Un bel gap. L’altro gap riguarda l’infrastruttura per coprire il territorio con la banda ultralarga, cioè Internet superveloce. Anche qui siamo dietro agli altri paesi europei, 54 esimi nel mondo con una velocità media di connessione di 8,2 Megabit al secondo contro i 29 della Corea del Sud, i 20 di Svezia e Norvegia, ma anche i 16 di Bulgaria e Romania. Dunque perdiamo competitività sul fronte della Industria 4.0, i servizi 4.0 stentano a decollare, l’e-commerce non ha ancora volumi paragonabili al resto dell’Europa. E questo, dicono le stime, toglie fra il 10 e il 20% del fatturato alle nostre imprese. Eppure in Emilia-Romagna qualcosa si muove. Il 17 febbraio scorso a Bologna è stato siglato l’ accordo tra la Regione, Lepida spa (società in house della Regione) e Open Fiber (società compartecipata da Enel e Cassa depositi e prestiti che ha assorbito Metroweb) per dotare di banda ultralarga (1gigabit al secondo) altre dieci città emiliano-romagnole: Cesena, Piacenza, Forlì, Ferrara, Rimini, Ravenna, Reggio Emilia, Imola, Modena e Parma. Sono buone notizie. La partita non riguarda Bologna perché sotto le Due Torri si è già praticamente concluso il processo di cablaggio della città, sia da parte della stessa Open Fiber che ha ereditato la rete Metroweb, sia autonomamente dalla concorrente Telecom, e ormai non mancano le offerte degli operatori. Tuttavia restano scoperte alcune aree del  territorio urbano ritenute ancora non sufficientemente appetibili dai privati perché non redditizie (le cosiddette aree a fallimento di mercato).

 Il progetto

Per la costruzione dell’infrastruttura telematica dei 9 capoluoghi di provincia più Imola Open Fiber investirà 238 milioni di euro. L’obiettivo dichiarato è connettere il 70% delle abitazioni e delle imprese con la banda ultra veloce attraverso la modalità FTTH (fiber to the home)  ovvero il cavo in fibra direttamente dentro le singole abitazioni o gli uffici. Niente più doppino in rame il che permette di evitare dispersioni che al crescere della distanza percorsa dalla centralina di zona, riducono pesantemente la velocità di trasmissione. Inoltre cala la frequenza dei guasti. C’è ottimismo sui tempi della realizzazione del piano: due anni. Per il 2018, quindi, in Emilia-Romagna si lavorerà veloci sul web. Questo il cronoprogramma presentato da Guido Garrone, responsabile network operations Polo Milano di Open Fiber, che così ne spiega i motivi: «Per la posa dei cavi in fibra ottica è previsto l’ utilizzo delle infrastrutture già esistenti. Enel porta in dote le sue, poi pensiamo a quelle di Hera e di altre aziende presenti nella città». Stesso discorso per Lepida che «potrà concedere l’uso di infrastrutture preesistenti nelle aree comunali per la posa dei cavi in fibra ottica e per l’installazione di apparecchiature da parte di Open Fiber» Una scelta che si traduce in meno permessi, autorizzazioni, studi, relazioni e tutti quei timbri burocratici che troppo spesso allungano la vita dei cantieri italiani. Un altro vantaggio è la riduzione degli scavi e,quindi, degli inevitabili disagi alla circolazione stradale. Sul fronte delle autorizzazioni è fondamentale la collaborazione con le dieci amministrazioni coinvolte. A questo proposito Regione e Lepida si sono impegnati nella semplificazione dei procedimenti amministrativi per il rilascio dei permessi e delle autorizzazioni da parte degli enti locali. Chiusi i lavori, la partita non sarà finita. La palla passerà agli operatori delle telecomunicazioni: la rete sarà aperta a tutti quelli attivi sul mercato per la commercializzazione dei servizi ai clienti finali.

La rete per i piccoli comuni

Nel restante territorio regionale agirà invece la mano pubblica, attraverso la società di scopo Infratel. Stiamo parlando delle cosiddette aree bianche o a fallimento di mercato dove gli operatori privati non hanno intenzione di fare investimenti. Per questi territori si è appena concluso il bando con la vittoria, seppure in modalità provvisoria, della stessa Open Fiber; si tratta di investimenti per altri 255 milioni di euro. Anche in questo caso è fondamentale operare in tempi brevi. Assicurazioni su un veloce cronoprogramma arrivano dall’ assessore regionale all’ agenda digitale Raffaele Donini: «Abbiamo detto ai Comuni in tono minaccioso, ma nel loro interesse, che abbiamo fretta, se non si sbrigano passiamo ad altri Comuni e chi è in ritardo va in coda».  Non si aspettano i ritardatari. Su questo fronte il direttore generale di Lepida Gianluca Mazzini spiega così il lavoro di concertazione: «333 enti pubblici e locali hanno già  firmato per garantire di concedere i permessi entro 30 giorni». Il piano si articola su  quattro anni, il traguardo è previsto nel 2020, e sono state già fissate le diverse tappe come si può leggere nel sito di Lepida, dove è possibile conoscere anche gli interventi paese per paese. La rete garantirà l’erogazione ai cittadini di un servizio di almeno 30 Mbps, quello alle imprese di almeno 100. Un buon passo verso il futuro.

Aumenta il Wi-Fi

Nelle righe precedenti abbiamo illustrato i piani per il futuro, ma sulle reti ultra veloci c’è già un gran lavoro fatto. «La Regione attraverso Lepida ha posato, dal 2004 ad oggi, 180 mila chilometri di fibra ottica – i numeri sono dell’ assessore Donini -, connesso in fibra quasi 3000 sedi e uffici della pubblica amministrazione ed in particolare Province, Comuni, Aziende ospedaliere ed Ausl, poi oltre 800 scuole raggiunte da reti da 1 Gbps. Infine 1.700 punti Wi-Fi che diventeranno 2.400 entro la fine dell’ anno».  Si è fatto, tanto c’ è da fare ma la Gigabyte Society in Emilia-Romagna è sempre più vicina con il passaggio dalla vendita dei servizi in modalità B2B a quella retail.

 

La crisi scompiglia il puzzle dei Confidi

Il calo di operatività e il boom delle sofferenze complicano la vita ai 21 consorzi di garanzia della regione: molti vorrebbero un organismo unico, ma ll progetto è in stallo e i piccoli lo contestano. Attesa per il bilancio post fusione di Unifidi-Fidindustria e per la riforma del governo

di Massimo Degli Esposti

 

Conclusa a fine novembre la fusione tra due dei quattro consorzi fidi vigilati da Bankitalia in Emilia-Romagna _ quello di Confindustria, Fidindustria, e quello del mondo artigiano Unifidi _ sembra già essersi arenato il percorso verso un unico organismo regionale auspicato dall’assessore regionale alle attività produttive Palma Costi e dal presidente Stefano Bonaccini replicando l’esperienza lombarda di Confidi Systema! Al di là delle rituali aperture al dialogo e al confronto, infatti, il terzo candidato all’aggregazione, il consorzio del terziario Cofiter, non ha mosso alcun passo concreto e anzi dietro le quinte non nasconde le sue preferenze per l’autonomia. Quello delle cooperative, Cooperfidi, è già a base nazionale dopo la fusione fra 9 confidi cooperativi regionali, e non sembra intenzionato a tornare indietro. Ogni progetto, del resto, deve fare i conti con una crisi che è l’altra faccia, speculare, di quella bancaria. Si chiama rischio di credito e coinvolge i due soggetti l’uno, le banche, sul fronte della concessione dei prestiti, l’altro, i confidi, su quello delle garanzie. Erogazioni e garanzie che in passato erano stati accordati con manica piuttosto larga e che la recessione ha ora trasformato in pesanti sofferenze. Pare però che ne risentano meno i 17 consorzi fidi minori operativi in regione, i cosiddetti non vigilati, focalizzati su importi più piccoli, operazioni più diversificate in un contesto territoriale circoscritto, ben conosciuto e quindi meno rischioso. Tredici di questi, in gran parte provenienti dal mondo agricolo, l’anno scorso si sono aggregati in Confidi in Rete, a sua volta aderente alla neo costituita associazione nazionale dei consorzi minori Asso112. Il vicepresidente nazionale è il bolognese Alberto Rodeghiero, presidente di Agrifidi Uno e promotore di Confidi in Rete. La nuova associazione nazionale si aggiunge a quella storica, Assoconfidi, proprio mentre è in fase di attuazione la riforma del sistema prevista dalla legge delega del 20 agosto scorso. I decreti attuativi dovevano arrivare entro il 20 febbraio, ma col decreto Milleproroghe la scadenza è stata prorogata di 180 giorni. C’è tutto il tempo, quindi, perché le due associazioni di settore facciano valere le loro ragioni in termini di snellimento delle procedure operative, riordino della filiera delle garanzie, nuove regole al Fondo di Garanzia per le Pmi per evitare che, offrendo coperture indiscriminate fino all’80% dell’erogato, diventi l’interlocutore privilegiato delle banche togliendo spazio e business agli organismi mutualistici. Proprio un calo dell’operatività aveva innescato la crisi che ha portato Fidindustria a confluire il Unifidi. Al vertice della nuova aggregazione, che dopo la fusione di novembre è di gran lunga il consorzio più grande della regione e uno dei maggiori in Italia con 80 mila aziende aderenti e uno stock di garanzie in essere pari a 750 milioni, è appena stato eletto il parmigiano Alberto Bertoli. All’assemblea di maggio, presentando i dati aggregati 2016, il nuovo presidente dovrà dirci se l’unione di due realtà entrambe in affanno (Unifidi viene da due esercizi consecutivi in significativa perdita, Fidindustria aveva visto calare l’operatività a pochi milioni di euro) può in prospettiva risolvere i problemi, cioè ridurre i costi di struttura, ampliare i servizi, accrescere il potere negoziale verso le banche e offrire alle aziende migliori condizioni per il credito. Ma il caso di Eurofidi, il colosso torinese fino all’anno scorso primo in Italia poi crollato sotto una montagna di 1,6 miliardi di sofferenze e un deficit patrimoniale di 118 milioni, dimostra che il gigantismo da solo non è la soluzione. Il suo declino, sottolinea un recente studio della società di rating bolognese Crif Ratings, «è un campanello d’allarme» per tutto il sistema dei confidi, con la recessione precipitato in una spirale di «aumento dei casi di sofferenza, incremento delle escussioni bancarie, assottigliamento dei margini economici, scarsa contribuzione pubblica, riduzione delle risorse patrimoniali». Il 25% dei 32 confidi maggiori sarebbe in «una classe di rischio molto elevata e rappresenta il 34% del totale delle garanzie concesse» continua Crif Ratings. Lo studio mette poi in evidenza che il totale delle garanzie è sceso da 13 a 8,3 miliardi, e a fronte di un 47% di confidi con una situazione soddisfacente (grado di deterioramento del 25% e tasso di copertura del 44%) il restante 53% ha un grado di deterioramento del 27% e copertura pari al 34%. Infine la marginalità media è dell’1,6%, quindi insufficiente a coprire costi operativi pari in media al 2% delle garanzie. La responsabile dell’agenzia Francesca Fraulo e l’analista Angela Condoluci, curatrici dello studio, sono convinte che l’Emilia-Romagna non faccia eccezione e che dei 21 consorzi operanti in regione almeno un quarto abbia le stesse fragilità emerse a livello nazionale. E dei circa 1,3 miliardi di garanzie in essere, almeno il 60% faccia capo a consorzi ad alto rischio. Le due analiste di Crif suggeriscono il modello lombardo del consorzio unico. «Consente di ridurre e ottimizzare i costi di struttura _ dice Angela Condoluci _, rafforzare il patrimonio, migliorare i servizi e anche innovarli, apportando a banche e clienti un patrimonio di soft informations determinanti per facilitare l’accesso al credito». Anche l’assessore Costi, sempre più preoccupata che la crisi dei confidi determini ulteriori difficoltà di credito per le Pmi, preme per «superare la frammentazione attraverso fusioni in soggetti creditizi più ampi» e ipotizza addirittura di sostenerne la nascita «attraverso una partecipazione al capitale diretta» da parte della Regione. I consorzi minori ribattono squadernando questi dati: nel 2015 il loro consolidato regionale indica garanzie per 372 milioni contro i 290 dei confidi maggiori; le sofferenze restano di 10-15 punti percentuali sotto la media di sistema (20%); le condizioni per la concessione delle garanzie sono più favorevoli; l’operatività è migliore, tant’è che 1,5 milioni di contributi regionali hanno prodotto 80-90 milioni di erogazioni garantite, mentre i 20 milioni concessi ai confidi vigilati non ne hanno prodotti più di 130. Il duello fra Davide e Golia non finisce mai.

Elite, il profumo di Borsa che piace alle emiliane

Sono già una trentina le aziende della regione che partecipano al progetto di preparazione alla quotazione. Il settore agroalimentare è quello più rappresentato, partendo da Granarolo che è la prima della classe

di Enrico Spazi

Piazza Affari langue. Per ora. A oggi gli ingressi in Borsa sono stati appena tre: quelli di Health Italia, Telesia e Orsero, che in realtà è un reverse merger della Spac Glenalta Food. Tutte e tre hanno scelto Aim Italia, il listino dedicato alle pmi. Eppure la voglia di quotazione in Emilia-Romagna è tanta. E se l’Ipo ancora non convince, c’è comunque l’ interesse di esplorare gli strumenti finanziari per crescere ancora. Qualcuno continua a ripetere «piccolo è bello» al di sotto del Po, ma il salto di qualità (e di quantità) per moltissimi passa dall’apertura del capitale e del management. Ecco perché in questi ultimi anni il gruppo degli imprenditori emiliano-romagnoli è andato affollandosi sotto il grande ombrello di Elite, il progetto di London Stock Exchange Group (di cui Borsa Italiana fa parte) per permettere alle società che vi si iscrivono di accedere alle competenze manageriali, finanziarie e organizzative di una società quotata e attrezzata per competere sui mercati internazionali. In sostanza i vertici dell’impresa seguono lezioni che hanno per oggetto private equity, investitori istituzionali e sistema bancario, tenute anche da imprenditori e manager di gruppi già quotati o da professionisti di Borsa Italiana. Il traguardo per le pmi si concretizza a volte nello sbarco a Palazzo Mezzanotte, ma non necessariamente in quello. Può anche essere l’emissione di mini bond, il ricorso al private equity, private debt o venture capitale e infine una fusione o un’ acqusizione. Elite è nato nel 2012. Finora vi hanno avuto accesso 442 società da 21 Paesi. A novembre sono entrate le ultime 44, 31 italiane e 13 inglesi. Le imprese vengono selezionate in base ai ricavi (almeno 10 milioni), all’ultimo bilancio in utile, alla credibilità del progetto di crescita e a risultati operativi in percentuale sul fatturato maggiori del 5%. Il peso della economia emiliano romagnola non è indifferente in questa community: sono infatti ben 30 le aziende della regione covolte, e altre verranno presentate nella nuova infornata di maggio. Gli ultimi ingressi a novembre scorso: la reggiana Nutristar che è specializzata in programmi nutrizionali per animali, la parmigiana X3 Energy che vende alle imprese energia elettrica, gas naturale, servizi e prodotti per l’efficienza e risparmio energetico ad alto valore innovativo e la Flo di Fontanellato, sempre nel parmense, che è specializzata nella produzione di bicchieri per il settore vending green oriented e i imballaggi alimentari. Le tre neo entrate in Elite emiliane sono aziende tra i 30 e i 100 milioni di euro con grandi orizzonti legati all’internazionalizzazione. Riavvolgendo il nastro delle ultime tappe di questa piattaforma di «training borsistico» si nota però una decisa predominanza del comparto food emiliano-romagnolo. Senza contare che ad agosto scorso l’osservatorio Ir Top dava all’Emilia Romagna il 13% delle pmi quotate all’Aim. Peculiarità peraltro sottolineata a suo tempo dallo stesso responsabile del primay market di Borsa Italia Luca Peyrano: «La prevalenza dell’alimentare ci fa piacere in Borsa. È un settore poco rappresentato, ma è fondamentale per il nostro Paese». Nel maggio scorso infatti erano sbarcati in Elite tre big emiliani del cibo: Ferrarini di Reggio Emilia, Mutti e Fratelli Galloni di Parma; la prima leader nei prosciutti, la seconda nel comparto pomodoro e l’ultima nei salumi, aceto e formaggi, mentre già nel 2014 era entrata la pasta fresca surgelata della ravennate Surgital e il colosso cooperativo Granarolo a cui spetta lo scettro di regina delle società Elite. Ciò non toglie che anche al di fuori del perimetro food ci sia voglia di finanza: scorrendo l’elenco si trova la riminese Focchi, specializzata nei rivestimenti dei grattacieli, le telecomunicazioni della bolognese Acantho, i fertilizzanti della Biolchim, anche lei bolognese, le cucine della reggiana Bertazzoni, il packaging e l’ingegneria ambientale del gruppo Maccaferri, un altro bolognese, l’abbigliamento della parmense Pinko. Insomma l’alunno emiliano-romagnolo è intelligente e ora abbiamo scoperto anche che si applica.

 

Multinazionali in salsa emiliana

Crescono gli investimenti dei grandi gruppi internazionali in Emilia Romagna. Non solo per gli 80 milioni di incentivi stanziati dalla Regione sull’attrattività territoriale, ma anche per i vantaggi  competitivi offerti da un ambiente industriale fertile e innovativo.

di Natascia Ronchetti

 

Quando la Regione Emilia Romagna ha messo sul tavolo 80 milioni di euro, frutto dell’accordo con il Mise e Invitalia, di certo ha fatto la differenza. Ma non è stato solo il contributo con il quale la  legge regionale sull’ attrattività ha fatto il proprio debutto a battezzare Sant’Agata Bolognese come unico luogo dove Lamborghini produrrà il suo nuovo Suv Urus, dopo aver ottenuto il via libera della casa madre Audi-Volskwagen per un investimento da capogiro: 800 milioni di euro. E’ stata la filiera dell’automotive e della meccanica, quel grande distretto che comprende Bologna, Modena, Reggio Emilia e che si allunga fino al Piacentino, a far pendere decisamente l’ago della bilancia verso l’hinterland del capoluogo emiliano.

Bratislava, in Slovacchia, la concorrente di Sant’Agata per la produzione del nuovo Suv, aveva già perso anche l’allure del basso costo del lavoro di fronte alla necessità di garantire l’italianità di un marchio storico della motor valley emiliana, al pari di Ferrari, Maserati, Ducati, Dallara e Pagani, e al contempo di insediare la nuova produzione in un cluster della meccanica che per storia, dimensioni e indotto è tra i più importanti in Europa. Oggi Lamborghini con il raddoppio della superficie produttiva, un nuovo centro logistico e di ricerca e sviluppo si prepara a sfornare il Suv nei primi mesi del 2018 dopo aver assunto già i due terzi della nuova manodopera prevista, circa 500 addetti in più.

Il caso Lamborghini è uno dei tanti esempi della capacità dell’Emilia Romagna di ritagliarsi un ruolo da protagonista della crescita europea per la capacità di attirare gli investimenti delle grandi  multinazionali. La sua forza di locomotiva della ripresa del Paese sta in un sistema produttivo che è stato scalfito e drenato dalla lunga recessione ma nemmeno nelle fasi più difficili ha perso la bussola dell’innovazione, dell’investimento sul capitale umano e sull’efficienza delle sue filiere. Cosa che le ha permesso di vincere grandi partite internazionali neutralizzando il richiamo del  basso costo della manodopera proveniente da molti Paesi dell’Est Europa. Non è un caso se il colosso americano Philip Morris ha scelto a sua volta il Bolognese, tra Zola Predosa e Crespellano, per il nuovo stabilimento che con il motore della controllata Intertaba ha  cominciato a produrre lo stick di tabacco a potenziale rischio ridotto (è basato sul riscaldamento e non sulla combustione) che rivoluziona il mondo della sigaretta. Un investimento da 500 milioni che è già quasi a pieno regime, con il completamento del nuovo blocco amministrativo e produttivo, oltre 500 nuovi posti di lavoro sui 600 previsti, la commercializzazione in una ventina di mercati, tra i quali, oltre all’Italia, il Giappone, la Romania, la Germania, la Svizzera, la Russia e l’Ucraina.

Parlare di grandi gruppi in Emilia Romagna sempre di più significa parlare di veri e propri giganti. Come Medtronic, il big statunitense del biomedicale – dal Minnesota ha spostato la sede a Dublino – che per la propria espansione europea ha scelto il distretto di Mirandola con l’acquisizione di Bellco, ceduta dal fondo Charme II della famiglia Montezemolo. Oppure il colosso statunitense dell’edilizia Mohawk che ha rilevato il gruppo Marazzi e attraverso questo ha poi  investito 100 milioni in nuovi stabilimento e, di recente, ha comprato anche Emilceramica. Oppure Dana che ha appena rilevato i riduttori Brevini con un investimento di qualche centinaia di milioni.

A guidare gli investimenti, a colpi di acquisizioni e di nuovi stabilimenti, in Emilia Romagna sono gli Usa, la Cina, il Nord Europa. La Francia a sua volta pochi anni fa aveva già calato l’asso della holding del lusso Louis Vuitton alle porte di Ferrara, a Gaibanella, per lo sviluppo produttivo della controllata Manifattura Berluti e un investimento sulle calzature da uomo di altissima gamma che ha portato a quasi 200 i dipendenti  e contemporaneamente ha consentito l’apertura di una accademia di formazione che oggi fa della città estense un polo d’eccellenza.

Tra grandi nomi e altri meno noti ma non meno importanti, spicca quello di International Paper, carta e imballaggi, 70mila dipendenti nel mondo e quartiere generale nel Tennessee, che nonostante il terremoto che ha colpito l’Emilia nel 2012 ha investito 20 milioni di euro a San Felice  sul Panaro, nel Modenese, per un nuovo impianto. Arrivano dalla Cina invece gli investitori che hanno rilevato un marchio storico della meccanica agricola emiliana, Goldoni SpA di Carpi, sempre nel Modenese. Sono i vertici di Foton Lovol Ltd, il più grosso costruttore di macchine agricole del gigante asiatico, un altro big da oltre 3 miliardi di euro di fatturato che ha puntato anche su un  secondo storico brand emiliano del settore, il piacentino Arbos.

Poi ci sono le multinazionali che dopo aver abbandonato l’Emilia, inseguendo il risparmio sul costo del lavoro, tornano sui propri passi per recuperare la competitività data dalle competenze altamente qualificate di una regione a forte densità industriale e con una radicata tradizione manifatturiera. E’ il caso della maxi holding danese Danfoss, 4,6 miliardi di ricavi, che ha portato a Castel San Pietro la produzione di Turolla, pompe oleodinamiche ad ingranaggi, abbandonando la Slovacchia dove aveva precedentemente delocalizzato. Un ritorno alle origini – il modello emiliano – per servire dal Bolognese tutta l’Europa.

Dal Fisco 4.0 fino a mezzo miliardo di euro di imposte in meno

Una stima macroeconomica dei risparmi per le imprese dell’Emilia-Romagna, grazie al taglio di 3,5 punti di aliquota Ires e alle agevolazioni del piano Industria4.0 per le innovazioni digitali, in particolare super e iperammortamenti

di Angelo Ciancarella

 

In Italia esistono due sistemi fiscali. Uno, quello noto a tutti i contribuenti, è diffidente (non senza ragioni), complesso e costoso. L’altro è amichevole, collaborativo, un vero e proprio strumento di politica economica per lo sviluppo delle imprese innovative. “Interpellato” sui profili fiscali di una operazione societaria non ancora compiuta, offre risposte chiare e si impegna ad attenersi a quella interpretazione, escludendo accertamenti e contestazioni. Tassa con moderazione i redditi d’impresa derivanti dallo sfruttamento di opere d’ingegno, brevetti, marchi, disegni e modelli registrati, grazie al “Patent box” adottato in altri paesi europei, e finora tra le ragioni principali per basare all’estero le holding industriali e delle imprese creative, dalla moda al design. Infine, diventa volano di innovazione tecnologica, incentivando gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’ingresso nel capitale delle start up, la sostituzione delle macchine e dei sistemi automatizzati, con crediti d’imposta, detrazioni fiscali, super e iperammortamenti. Questa è la novità più significativa, perché consente la deducibilità frazionata secondo il piano di ammortamento pluriennale, non già della spesa sostenuta, ma di un importo maggiorato (superammortamento al 140%, già previsto dallo scorso anno e ora confermato) o addirittura di un suo multiplo (iperammortamento, al 250%).

Fino a un paio di anni fa Industria 4.0 era considerato uno slogan accattivante ma oscuro. Ora si percepisce che si tratta della quarta rivoluzione industriale, e di un piano di sviluppo economico per trasferire l’innovazione digitale all’interno dei processi produttivi. E allo stesso modo il governo definisce il piano di politica economica elaborato dal ministero dello Sviluppo economico e in gran parte affidato alla leva fiscale.

L’iperammortamento è una cosa che si stenta a credere. Nemmeno il più incallito elusore avrebbe immaginato tanto. Naturalmente il beneficio, oltre a essere straordinario, fino all’anno prossimo, prevede anche caratteristiche precise delle macchine e degli impianti ammessi alla deduzione (che affianca quella, appena un po’ meno tecnologica, del superammortamento al 140%). L’elenco dei beni ammessi è un allegato ufficiale alla legge di bilancio 2017. Si tratta di macchine controllate da sistemi computerizzati e interconnesse con altre macchine, con i sistemi informatici e la logistica della fabbrica. Internet ovunque e tanta intelligenza artificiale. Oppure di software che possono equipaggiare macchinari già posseduti e predisposti per questa implementazione. Quando il valore del bene supera i 500 mila euro occorre una perizia giurata di un tecnico professionista.

Si è accennato alla attrazione di capitali per consentire a un’impresa giovane e con buone idee di compiere un passo altrimenti impossibile. I soci e le aziende sponsor di start-up e Pmi innovative possono dedurre gli investimenti in tali imprese, oltre a beneficiare dell’esenzione fiscale sulle stock option per dipendenti, amministratori e consulenti.

Ci sono poi altre agevolazioni, sempre rivolte all’innovazione o alla sostituzione dei macchinari, ma consistenti in un contributo finanziario, non in un risparmio d’imposta. È il caso della storica “legge Sabatini”, rifinanziata per l’occasione.  In generale, poi, da quest’anno l’imposta sulla società, l’Ires, abbatte l’aliquota di tre punti e mezzo, dal 27,5 al 24%. Come dire che ha ridotto il suo peso del 13%.

Ires a parte, sulla possibilità, caso per caso, di beneficiare delle agevolazioni  sono all’opera in questi mesi i consulenti d’impresa e gli studi professionali. Perciò non è il caso di intromettersi nel loro lavoro in questa sede. Sia però consentito un esempio, per avere almeno un’idea approssimativa del valore dell’iniziativa: si immagini l’investimento in un macchinario intelligente per un milione di euro. Già lo scorso anno, grazie al superammortamento al 140%, il maggior beneficio fiscale era misurabile in 96 mila euro in cinque anni. Con l’iperammortamento il risparmio schizza a 360mila euro, quasi il triplo. Gli imprenditori più reattivi, che già nel 2016 hanno creduto nel piano e hanno investito, ora recriminano: una volta tanto, l’attesa sarebbe stata premiata. Ma siccome si tratta degli imprenditori migliori, c’è da credere che utilizzeranno l’iperammortamento per acquistare subito nuove macchine interconnesse.

Qui però interessa analizzare il risvolto macroeconomico dell’operazione. Non è semplicissimo da stimare – soprattutto se lo si voglia ricondurre a una dimensione regionale – ma è di grandissimo interesse anche a volersi limitare agli effetti fiscali, che rappresentano solo una parte degli effetti economici di Industria 4.0.

Quale sarà in totale il beneficio economico per le imprese dell’Emilia-Romagna, sotto forma di risparmio d’imposta? È lecito immaginare che le regioni più avanzate si ritaglieranno una fetta proporzionalmente più grande dei benefici fiscali, che quindi non si ripartiranno in tutta Italia in misura proporzionale alle imposte oggi versate. Il portfolio di bonus fiscali, infatti, riguarda sia le aziende manifatturiere che si trasformano in fabbriche intelligenti, sia i fornitori di macchine, impianti e software. Cioè il mix che caratterizza il tessuto industriale dell’Emilia-Romagna.

L’impegno pubblico complessivo è stimato dal ministero dello Sviluppo economico in 13 miliardi di euro nel quadriennio 2017-2020, a fronte di un investimento quasi doppio da parte delle imprese. Quindi, anche a voler essere prudenti, l’Emilia-Romagna nel solo 2017 potrebbe arrivare a un risparmio d’imposta fino a mezzo miliardo di euro. È una cifra importante, perché rappresenta più di un quarto, il 27%, dell’Ires netta versata nel 2015 dalle imprese della regione. È vero che le agevolazioni non riguardano esclusivamente le società, ma è lecito immaginare che siano soprattutto loro a pianificare gli investimenti.

E se anche non tutto il beneficio fiscale si concentrasse sul (minor) gettito Ires, l’ordine di grandezza complessivo resta quello indicato: mezzo miliardo di euro. Una fetta importantissima che ovviamente, anche all’interno della regione, non si ripartirà in modo proporzionale tra le imprese contribuenti, e selezionerà ulteriormente l’universo di quelle più innovative e capaci di affrontare il futuro.

Il gettito Ires con il quale abbiamo confrontato i benefìci attesi per l’anno in corso, fa parte delle statistiche diffuse a fine gennaio dall’Agenzia delle Entrate. Non sono freschissime, perché si riferiscono ai saldi versati nel 2015, relativi all’anno d’imposta 2014. E francamente non si comprende del tutto perché occorra tanto tempo per elaborare in forma aggregata dati numerici totalmente informatizzati e immediatamente tracciabili per localizzazione geografica, settore economico, tipologia dei contribuenti. Se il governo utilizza finalmente il fisco (anche) come strumento di politica economica, le statistiche fiscali prodotte tempestivamente rappresenterebbero a loro volta un formidabile strumento di analisi per individuare in modo sempre più mirato quegli strumenti.

Nel 2015, per esempio, l’imponibile fiscale delle oltre 300mila imprese emiliano-romagnole è salito ben del 12% rispetto al 2014, da 14,9 a 16,7 miliardi di euro. Ma l’imposta netta versata è cresciuta solo della metà, il 6%: da poco meno di 2,3 a oltre 2,4 miliardi di euro (come somma di Irpef o di Ires, rispettivamente per le persone fisiche e giuridiche), a carico però di una platea ben più piccola, praticamente dimezzata e anche in leggera contrazione: 161 mila contribuenti rispetto ai 164 mila dell’anno precedente.

A livello nazionale sono emersi soprattutto – per limitarsi all’Ires – un aumento dell’imponibile di poco inferiore al 4% (per un totale di 122 miliardi di euro); un aumento del 2,8% nel numero delle società contribuenti con reddito; ma una sostanziale stabilità di quelle con imposta superiore a zero, che sono il 57 per cento.

L’Emilia-Romagna, nelle dichiarazioni 2015 e sempre per quanto riguarda l’Ires, ha superato di quasi 2 miliardi di euro il Veneto come reddito imponibile lordo (14,4 rispetto a 12,6) ma ha versato un’imposta netta inferiore: 1,8 rispetto a 2 miliardi di euro.

 

Un club di 20 “acquisitori seriali”. E altri 200 potrebbero imitarli

Le imprese emiliano romagnole iperattive nel M&A  rappresentano il 16% del totale nazionale. Ma le possibili  “cacciatrici” sono dieci volte tanto. Uno studio Kpmg-Bocconi ne analizza potenzialità, motivazioni e timori 

di Angelo Ciancarella

 

L’Italia perde pezzi, gli stranieri comprano il meglio, Vivendi spera di apparecchiare anche il palinsesto televisivo degli italiani, Luxottica fa eccezione, ma chissà cosa succederà al momento, prima o poi inevitabile, della successione a Leonardo Del Vecchio, il fondatore; perfino Generali deve guardarsi le spalle, e forse avrà solo l’alternativa tra l’essere preda di italiani o francesi. Questa immagine, non priva di parti di verità, è la realtà percepita. Ma se si scava un po’ di più, lasciando perdere quel che resta dei grandi gruppi, la realtà è molto diversa e molto più dinamica; è come osservare da un microscopio la superficie brulicante di vita di un materiale fino a un attimo prima apparentemente inerte. Nell’economia senza confini ci sono molti modi per affacciarsi altrove (e non essere fagocitati o perire di stenti fra le quattro mura del proprio paese e della propria regione). Si esporta, si produce e distribuisce sul posto, si acquistano imprese già concorrenti o complementari, sia in Italia che all’estero. Lo si fa acquistando direttamente il pacchetto di controllo, talvolta piccolo ma strategico, o acquisendo quote significative di gruppi quotati, per poi entrare nel Cda e creare sinergie. Se per vedere da vicino questa operosità il microscopio si concentra sull’Emilia-Romagna, la biodiversità è davvero grande. Ci sono quelli che acquistano di tanto in tanto, e quelli che si guardano continuamente intorno, sembrano bulimici ma in genere sanno bene cosa fanno, soprattutto in settori che cambiano pelle continuamente (quasi tutti, ormai) e in cui il mercato di riferimento è uno solo _ il mondo _, ma va servito punto vendita per punto vendita, cioè paese per paese. Per i più capaci e attivi tra questi è stata coniata la definizione di “acquisitori seriali”, riservata ai gruppi che nell’ultimo decennio sono cresciuti attraverso fusioni e acquisizioni. In Italia ce ne sono appena un centinaio (e anche gli acquisitori occasionali non sono un numero sterminato: diciamo il doppio). Ben venti “seriali” sono emiliano-romagnoli, oltre il 16% del totale Italia di 127. Altri 46 hanno effettuato operazioni episodiche. Alcuni hanno operato soprattutto in Italia, altri all’estero in relazione ai diversi business e fino a divenirne leader mondiali. I loro nomi sono noti anche al grande pubblico: Hera, Coesia (11 operazioni solo negli ultimi 5 anni), Ima, Crif, Chiesi, Cremonini, Interpump (8 acquisizioni recenti, tre all’estero). Finora le imprese italiane sono state soprattutto prede, sia pure trattate con il riguardo che meritano professionalità e know how irripetibili, e perciò con nuovi investimenti produttivi e management spesso rimasto italiano: Ducati, Lamborghini, Ceramiche Marazzi, che ora ha portato anche la neo acquisita Emilceramica nella capogruppo americana Mohawk, leader mondiale. La consulenza che guarda lontano si è chiesta quanto sia il potenziale inespresso di crescita attraverso fusioni e acquisizioni, M&A indispensabili nel mercato globale incompatibile con i piccoli passi. Nel mondo il mercato delle M&A vale oltre il 4% del Pil, in Italia poco più del 3%. Kpmg e Sda Bocconi, in collaborazione con Borsa italiana e Corriere Economia, hanno svolto una ricerca e individuato 1.368 imprese italiane, 219 delle quali in Emilia-Romagna (il 16%) con un fatturato 2013 di almeno 50 milioni di euro, che ben potrebbero fare (o l’hanno già fatto) M&A. In media il fatturato del campione considerato è di 637 milioni in Italia, quasi dimezzato in Emilia-Romagna, terra di piccole e medie imprese: 324 milioni di euro. Oltre il 40% (quasi la metà in regione) non sono in realtà abbastanza profittevoli per effettuare operazioni del genere. A conti fatti, in regione restano 115 imprese (770 in Italia) con i numeri giusti: 67 conoscono già l’adrenalina della crescita per salti. Il restante 40% non ha avuto questa esperienza: 48 imprese, un plotone con tutti i numeri per affacciarsi sul mercato. Maximilian Fiani ha curato lo studio di Kpmg, che ha anche intervistato il campione delle imprese candidate. Hanno risposto in 200, il 15% delle quali è in Emilia. L’80% di loro considera le M&A essenziali (22%) o importanti ma non indispensabili (58%) per la crescita. Un terzo ha già in corso piani di acquisizione entro i prossimi 12 mesi; altrettante pensano di farlo nei prossimi tre anni. Quasi la metà ha già individuato l’obiettivo e non poche pensano a possibili dismissioni, per avere più forza nelle operazioni programmate. Trapelano non pochi timori, legati soprattutto alle disponibilità finanziarie (43%). Esperti e imprenditori che qualche mese fa hanno partecipato alla presentazione in Bocconi dello studio – tra i quali Papadimitriou di Coesia e Venier di Hera – hanno rassicurato sul vincolo finanziario, superabile in molti modi se l’operazione non è avventata. La ricerca, per ragioni comprensibili legate all’indispensabile riserbo sui piani industriali (in mancanza del quale le risposte non sarebbero state sincere) non indica i nomi delle imprese pronte a scendere in campo. Ma abbiamo compiuto una elaborazione sul database Aida Bureau van Dijk, attraverso il quale anche la ricerca Kpmg (incrociando ulteriori fonti) ha individuato le 1.368 imprese italiane. Criteri abbastanza severi: più di 50 milioni di euro di fatturato 2014, tasso di crescita ebitda di almeno il 10%, indice di liquidità non inferiore a 0,9. Il database ha restituito ben 148 imprese emiliano-romagnole. Dalle 148 sono state estratte le dieci più performanti, con ebitda fra 2 e 73 milioni di euro, e le dieci più liquide (con indice compreso fra 2,7 e 4,3). Alcune sono presenti in entrambe le liste. Ci sono vecchie conoscenze e alcune sorprese – come la Cisa e anche Lamborghini e Maserati – eccentriche rispetto all’obiettivo considerato. Tra queste Cineca: ma chi ha detto che un consorzio di calcolo interuniversitario e di alto livello non possa crescere per linee esterne e anche all’estero? Nella prima lista si trovano anche industrie ceramiche (Atlas Concorde e Florim), l’alimentare con Inalca, Parmalat e la distribuzione con Marr; Hera Comm e Ireti, società commerciali delle due multiutility. Tra le imprese più liquide, il legno di Alpi, ancora la ceramica (Refin), la moda e abbigliamento di Imperial e Marella; le perforazioni di Pergemine e il movimento terra di Caterpillar Mec-Track. La caccia è aperta, e anche i consulenti possono drizzare le antenne. Kpmg, forse non volendo, ha reso un servizio ai concorrenti e ai colleghi più piccoli.

Mergermania in salsa emiliana: non è solo una “cosa da grandi”

Un boom di operazioni dal 2011 ad oggi: 436 per un controvalore di oltre 16 miliardi. Prevalgono il settore industriale (41%) e quello consumer (33%) 

di Enrico Spazi

 

Una regione perno. Potremmo definire così l’Emilia-Romagna guardando il numero e le caratteristiche delle fusioni e acquisizioni concluse nell’arco del 2016 e continuate anche in questo primo mese del 2017. Basta dare una scorsa alle cronache finanziarie per rendersi conto dell’entità del fenomeno. Un fenomeno diffuso, però, che non riguarda solo i grandi nomi dell’imprenditoria regionale. Facciamo qualche esempio. La bolognese Biolchim spa, azienda leader nella produzione e commercializzazione di fertilizzanti controllata dal fondo Wise SGR insieme al management, ha rafforzato la propria posizione nel mercato ungherese con l’acquisizione di una quota di maggioranza del 70% in Matécsa Kft, azienda produttrice di terriccio e substrato. Il gruppo modenese SEM, tra i principali operatori in Italia nelle acque minerali naturali di sorgente, ha comprato la maggioranza di Acqua Claudia srl, società a cui fa capo la storica fonte di acqua minerale effervescente naturale di Anguillara Sabazia in provincia di Roma e sottoposta a procedura fallimentare al tribunale di Civitavecchia. E restando in tema di liquidi, il gruppo riminese Celli, attivo negli impianti per la spillatura di bevande, ha acquisito il 100% di Cosmetal, società marchigiana produttrice di soluzioni per l’erogazione di acqua da bere.  Nel biomedicale, a fine anno la modenese Sidam ha acquisito il 75% dell’inglese Btc Medical Europe. Nuova Castelli, boutique dell’agroalimentare, è andata in New Jersey per acquistare Empyre Specialty Cheese, un vero cavallo di Troia per espandersi nel mercato americano con i marchi dop italiani. Perfino le Canarie fanno gola, e non solo nel food: la riminese Maggioli ha acquistato la spagnola Galileo (basata nell’arcipelago) e Inalca (gruppo Cremonini) il Grupo Comit, che già distribuisce il made in Italy alimentare nel polo turistico internazionale. Insomma, occhi e porte spalancate sul mondo. E a proposito di “porte”, è ancora recente l’acquisizione estiva della sudafricana Centurion Systems da parte di Faac, che ha messo ormai alle spalle le incertezze sulla proprietà contesa, e regala soddisfazioni al trust che la gestisce e alle buone azioni della curia che si occupa solo di destinare i dividendi. Venendo ai grandi nomi, Alfasigma (frutto tra l’altro della recente fusione Alfa Wassermann e Sigma Tau) ha inglobato da Nestlè l’americana Pamlab, leader nella produzione di integratori alimentari. Granarolo tramite un’asta si è aggiudicata Pandea Dietetica, specializzata nella produzione di prodotti da forno con e senza glutine entrando così nel comparto bakery. Ima ha fatto recentemente un doppio shopping conquistando una quota dell’80% della parmense Mapster e una di minoranza della ferrarese Petroncini, due deal che puntano a rafforzare il colosso del presidente di Confindustria Emilia Alberto Vacchi nel settore dei macchinari per il settore “coffee single serve” e di processo. Nel confezionamento di tè e tisane, invece, il colosso bolognese ha impacchettato per 7,7 milioni di dollari il 70% dell’argentina Mai. E la concorrente diretta Coesia del gruppo Seragnoli, che negli ultimi anni ha perfezionato 16 acquisizioni e prepara le prossime analizzando ben 120 dossier di imprese di decine di paesi, ha da poco acquisito Emmeci, che è italiana, ma è leader globale nella nicchia dei macchinari per il packaging dei beni di lusso. E la “terza forza” del packaging bolognese, Marchesini Group del presidente di Confindustria Emilia Romagna Maurizio Marchesini, ha annunciato l’altro ieri di aver acquisito la storica azienda familiare bolognese Dumek che produce macchine di processo per cosmetici con 3,5 milioni di fatturato. La parmigiana Chiesi, per 75 milioni di euro, ha fatto sua Atopix Therapeutics. Interpump, che aveva aperto il 2016 acquisendo Endeavour, ha centrato perfino una briciola nel settore dei tubi per l’oleodinamica, come l’inglese Bristol Hose (meno di un milione di euro); insieme al M&A di grandi dimensioni, le microacquisizioni fanno parte della strategia commerciale e di assistenza post-vendita del gruppo reggiano. Hera ha già messo a segno due acquisizioni dall’inizio dell’anno: Aliplast, azienda di Treviso specializzata nella raccolta e nel riciclo di rifiuti plastici con un fatturato di 100 milioni annui e la pisana Teseco specializzata nel trattamento di rifiuti industriali. Proprio l’altro ieri, per finire la carrellata, il numero uno degli “acquisitori seriali” emiliano romagnoli, la reggiana Interpump di Fulvio Montipò ha comprato il gruppo spagnolo Inoxpa specializzato negli impianti per il trattamento di fluidi alimentari. Insomma a cavallo tra 2016 e 2017 sono già andate in porto una dozzina di operazioni. E’ una crescita continua dal 2011 in poi, a ritmo ben superiore rispetto alla media italiana. Secondo un’analisi di Kpmg, dopo un periodo di stabilità in termini di volume, le M&A che hanno coinvolto la via Emilia negli ultimi 9 mesi del 2016 hanno raggiunto quota 103, pari a circa il 19% dei volumi totali del mercato italiano (551) per un controvalore di 2,5 miliardi di euro sul complessivo nazionale di 39 miliardi. Andando indietro negli anni il peso della nostra regione nel M&A era molto minore: nel 2011 le operazioni furono appena 63, sulle 329 complessive italiane, pur coprendo in valore 4,8 miliardi dei 28 totali. Analizzando meglio i dati si notano due peculiarità: da una parte la preponderanza degli stranieri su suolo emiliano; dall’altra l’esistenza di una forte squadra nostrana di “acquistori seriali”. In entrambi i casi i settori prediletti per le operazioni sono quello industriale (41%) e consumer (33%). Negli ultimi sei anni infatti si sono concluse ben 436 transazioni per un controvalore di 16 miliardi di euro e quelle estero su Emilia-Romagna sono state ben 121 per un importo complessivo di 9 miliardi, cioè più del 25% del totale italiano (179 per 13 miliardi di valore). Se a queste aggiungiamo le 101 M&A effettuate da aziende di altre regioni (valore 1,7 miliardi; un esempio su tutti Dedalus che si compra i software sanitari di Noemalife) e le 52 realizzate all’interno dell’Emilia-Romagna (valore 500 milioni), risulta che le nostre aziende sono state bersaglio di 274 operazioni. I casi più eclatanti? Parmalat, che nel 2011 è stata acquisita dai francesi di Lactalis, uno shopping pari a quasi l’80% del valore totale dell’M&A in regione per quell’anno. Poi Ceramiche Marazzi, finite nelle mani a stelle e strisce del gruppo Mohawk, e il buyout dei vetri parmigiani di Bormioli da parte del fondo Vision capital. Le nostre aziende però non stanno a guardare. Non sono da meno infatti le loro incursioni in qualità di «bidder», cioè di compratrici: 190 transazioni per uno scambio pari a 4 miliardi, di cui 3,5 realizzati acquistando oltreconfine. La Chiesi Farmaceutici che acquisisce gli asset cardio di The Medicines Company e la famosa fusione per incorporazione di Yoox con Net- A-Porter del gruppo Richemont. A svettare sono sempre i quattro campioni dello shopping emiliano: Interpump del reggiano Fulvio Montipò (dal 2011 14 acquisizioni); Coesia (13); la già citata Granarolo (11) a pari merito con il centro di calcolo e studi Crif (11). C’è poi da sottolineare un altro dato messo in evidenza dallo studio di Kpmg: le nostre aziende, quando comprano, tendono sempre a valorizzare i manager locali.