Il private equity scopre l’Emilia. «Ma questa regione vale di più»

One Equity Partners investe almeno 100 milioni di euro nella modenese Usco. Per il Rapporto Aifi nel 2016 i fondi hanno investito  350 milioni, un quarto in più rispetto al 2015, mentre a livello nazionale l’aumento è stato del 77%. Siamo  al secondo posto dopo la Lombardia per numero di operazioni (32 su 322, il 10%)

A forza di movimentare terra in tutto il mondo, la modenese Usco ha richiamato l’attenzione di uno dei maggiori fondi internazionali di private equity, One Equity Partners, braccio operativo della banca d’affari JP Morgan. Il 3 aprile scorso ha comunicato di aver rilevato il 49% del capitale del gruppo meccanico che ha sede in Emilia-Romagna ma produce anche in Spagna, Sud Corea e Cina, è presente con una propria rete commerciale in 40 paesi ed esporta in oltre 100. Occupa 1.350 dipendenti e nel 2016 ha fatturato 400 milioni. L’operazione è avvenuta in parte rilevando azioni della società, in parte attraverso un aumento di capitale riservato. A conti fatti, benché il dato ufficiale sia al momento ignoto, l’investimento non è inferiore ai 100 milioni di euro, ma potrebbe anche essere superiore. Non sono numeri stratosferici, ma nel mercato del private equity in Emilia-Romagna rappresentano da soli un terzo delle operazioni di un anno intero.

L’operazione modenese, e la presentazione, avvenuta appena pochi giorni prima a Milano, dei dati 2016 del private equity in Italia sono l’occasione per approfondire questo particolare segmento degli investimenti finanziari nell’economia reale, in quel segmento fondamentale rappresentato dalla media impresa in sviluppo o della start-up altamente innovativa, in entrambi i casi con una dimensione e una struttura non ancora dimensionate per il mercato azionario.

Secondo i dati Aifi (l’associazione italiana tra gli operatori e i fondi di private equity, venture capital e private debt) gli investimenti finanziari nel capitale di rischio delle imprese hanno avuto nel 2016 un’impennata in valore, superando gli 8 miliardi di euro: un ordine di grandezza quasi doppio rispetto al 2015 (da 4,6 a 8,2 miliardi, + 77%), nonostante la leggera contrazione nel numero delle operazioni, da 342 a 322. L’Emilia-Romagna, con 350 milioni di investimenti, è al 5° posto; e con il 10% delle operazioni (32) supera il Veneto e conquista il secondo posto tra le regioni italiane, sia pure a distanza stratosferica dalla Lombardia (137, più del quadruplo e il 43% del totale) e nonostante il minor numero di operazioni rispetto alle 39 del 2014 e alle 34 del 2015.Ma è un trend generale. Il settore del private equity, che include varie forme di finanziamento diretto degli operatori specializzati nel capitale di rischio di imprese non quotate, si consolida: il valore medio delle operazioni è in aumento, perciò il totale degli investimenti cresce, mentre il numero di operazioni si riduce (-6% nel 2016). Il 70% degli investimenti, in valore, è effettuato da operatori internazionali, a conferma della «ritrovata attrattività delle imprese italiane da parte degli investitori esteri», ha sottolineato Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi.

Un’attrattività basata sulla competitività e l’innovazione delle imprese migliori: in parte note e con una storia famigliare alle spalle, ma patrimonialmente non così solide da poter continuare da sé; in parte giovanissime o appena oltre la soglia delle start-up, nate per gemmazione o nell’indotto dei tanti distretti italiani, con buone idee, brevetti innovativi e tecnologie 4.0, ma bisognose del carburante finanziario.

È in larga misura la fotografia della manifattura emiliano-romagnola, che negli ultimi anni ha trovato anche nuovi filoni produttivi e di ricerca, come il biomedicale di Mirandola nel modenese; o ha innovato settori tradizionali come l’agroalimentare, alla scoperta di nuovi mercati nel mondo, Stati Uniti inclusi (dazi permettendo, d’ora in poi). Ambiti, tutti, che hanno già riscosso negli ultimi 5 anni l’attenzione degli investitori e dei fondi stranieri, e che dal 2015 hanno anche trovato ulteriori veicoli capaci di aggregare i capitali in cerca di investimenti, come i “fondi di fondi” promossi dal Fondo italiano di investimento.

Nel 2016 le operazioni oltre la soglia dei 150 milioni di euro sono state 17, il 5% del totale; ma in valore rappresentano i tre quarti del totale (quasi 6,1 miliardi di euro). In questo l’Emilia-Romagna arranca un po’, perché è superata, oltre che dalla solita Lombardia (con 5,7 miliardi e il 70% del totale), anche da Trentino-Alto Adige, Lazio e Veneto, tutte fra il 5 e il 6%. L’Emilia-Romagna rappresenta il 4%, con circa 350 milioni di euro, in crescita di un quarto rispetto ai 273 milioni di euro dello scorso anno.

È una quota significativa, ma è inferiore alle potenzialità (specie in valore assoluto), in un anno record in fatto di investimenti. Ed è lontanissima dai 761 milioni di euro del 2014, che tuttavia aveva beneficiato di due operazioni straordinarie nel settore agroalimentare: la partecipazione del Fondo strategico italiano (gruppo Cassa depositi e prestiti, dal 2016 ridenominato Cdp Equity) alla ricapitalizzazione di Inalca per 165 milioni di euro; e il buy out da 300 milioni di euro del fondo europeo Chartherhouse Capital Partners per l’80% della reggiana Nuova Castelli, il maggiore esportatore di formaggi Dop italiani, Parmigiano Reggiano in testa.

Il consuntivo elaborato da Aifi segmenta le tipologie di operazioni, proprio per mettere in evidenza le diverse caratteristiche degli investimenti e delle imprese che ne beneficiano, nonché i trend di crescita. Per esempio l’investimento di minoranza realizzato attraverso un aumento di capitale riservato, finalizzato all’espansione geografica o merceologica e definito expansion, è più che raddoppiato nel 2016, nonostante il numero di operazioni sia sceso da 76 a 67: 710 milioni di euro, a +132%. Si tratta dell’incremento più significativo in percentuale, ma come si vede in valore rappresenta una fetta inferiore al 10%. E così per le altre tipologie, tutte in crescita ma dal valore contenuto, come il venture capital che ha superato di poco la soglia dei 100 milioni di euro: +40%) con 128 operazioni: in media, investimenti (definiti early stage) inferiori al milione di euro.

La parte del leone continua a farla il classico buy out, cioè il finanziamento dell’acquisizione dell’impresa, tutta intera o nella sua maggioranza, da parte di imprenditori (talvolta lo stesso management) che pianificano il rimborso attraverso i flussi di cassa generati dallo sviluppo e dalle attività future. A parità di operazioni rispetto all’anno precedente (da 99 a 98) è cresciuto in valore dell’83%, fino a 5,8 miliardi di euro, il 70% del totale di 8,2 miliardi di euro.

Il totale degli investimenti nel 2016 non rappresenta soltanto un record interno, ma si pone ai vertici anche nel confronto europeo. Lo ha ricordato a Milano Francesco Giordano, partner di PwC Transaction Services, che ha collaborato all’analisi dei dati per il rapporto Aifi 2016: «Il record assoluto per l’Italia è frutto di grandi operazioni realizzate da player internazionali, grazie alle quali il nostro mercato del private equity ha superato la Germania e si pone immediatamente alle spalle della Francia, al secondo posto nell’Europa continentale. Purtroppo il numero delle operazioni rimane ancora fortemente limitato rispetto agli altri mercati» ha osservato Giordano, tuttavia fiducioso sulle prospettive, anche grazie alla Brexit: «Se gli operatori internazionali decideranno di stabilire in Italia un proprio presidio, questo potrebbe rappresentare un driver positivo per l’incremento degli investimenti».

Se gli investimenti, benché inadeguati, crescono, la raccolta 2016, invece, ha segnato una battuta d’arresto, con 1,3 miliardi di euro e un pesante arretramento del 47%. Si tratta in realtà di un rimbalzo e di un riallineamento ai valori precedenti, tenuto conto che l’incremento del 2015 non era strutturale, ma determinato da alcune grandi operazioni di fondi italiani, come quelle già ricordate di Fii. Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi (e anche di Fii), sempre in occasione della presentazione dei dati 2016, ha rilevato l’inadeguatezza della raccolta, sia rispetto alle potenzialità del mercato finanziario italiano, sia rispetto al contesto internazionale. Dal punto di vista dell’analisi territoriale degli investimenti, comunque, l’andamento della raccolta interna è questione di relativo interesse. Quel che al mondo non manca, in questi anni di crisi, è un’imponente liquidità a caccia di investimenti potenzialmente interessanti e con remunerazioni soddisfacenti per gli investitori, i quali sono per definizione internazionali (perché anche i capitali raccolti in Italia seguono poi le vie del mondo, per scegliere gli investimenti).

Va infine considerato il private debt, cioè l’indebitamento non sul mercato, di tipo obbligazionario; i cosiddetti minibond hanno ricevuto un occhio di riguardo sia sul piano legislativo che istituzionale, con il fondo promosso dal ministero dell’Economia insieme con Cassa depositi e prestiti (ma gli operatori internazionali finanziano i due terzi delle operazioni, in valore). Si tratta di un segmento per ora molto contenuto, stimato in 378 milioni di euro (meno del 5% del private equity e degli altri investimenti di capitale). Tuttavia è anch’esso in forte crescita, sia in valore (+87% sul 2015) che in numero di operazioni (65, con un incremento del 51%). Il peso dell’Emilia-Romagna è in linea con quello nel settore maggiore: 8 operazioni su 65 sono basate in regione. Ma dietro la Lombardia (22 operazioni) spicca il Triveneto, che in complesso fa addirittura di più: 29 operazioni, con il Trentino-Alto Adige a quota 15 e il Veneto a 12.

La finanza corre, si sa; ma quando finanzia l’economia reale anche lei ha bisogno di tempo. Poi i risultati si vedono. Forse, oltre al bilancio annuale aggregato su nuovi investimenti, raccolta e disinvestimenti, bisognerebbe aggiornare l’archivio e vedere l’evoluzione nel tempo di un settore che ha in portafoglio 1.270 s0cietà italiane, con 400mila dipendenti e oltre 100 miliardi di fatturato. Tra le mille, citiamo solo quella ricordata da Innocenzo Cipolletta in una intervista di qualche mese fa: «Il Fondo italiano investe in Emilia-Romagna dal 2011: la prima operazione fu l’acquisto di un terzo del capitale della Comecer di Castel Bolognese, specializzata nella produzione e nel dosaggio di radiofarmaci. Nel 2015 ha triplicato il fatturato, per il 90% esportato in 100 paesi. Allora, con soddisfazione, Fii ha disinvestito» ed è subentrata Principia Sgr, attraverso il suo fondo specializzato nel settore sanità e salute, che oggi detiene il 45%, con l’obiettivo di medio termine di portare l’azienda in Borsa.

Angelo Ciancarella