L’Emilia-Romagna cambia pelle Ora è la terra delle competenze

Quindici dei maggiori economisti internazionali riuniti a consulto su una regione che non corrisponde più allo stereotipo food-motori- piastrelle. Big data, Industria 4.0 e Internet delle cose la proiettano tra le nuove eccellenze globali.

Bologna, 30 novembre 2017

 

E’ prima in Italia per crescita, dopo gli anni bui della recessione, con una previsione di aumento del Pil nel 2017, secondo le stime di Prometeia, dell’1,9%, rispetto all’1,5% nazionale, e con un tasso di disoccupazione pari al 5,9%, contro il 9% del gennaio 2015. Ma l’Emilia Romagna non è solo la locomotiva della ripresa del Paese, al pari della Lombardia. È anche una regione che ha cambiato rapidamente pelle: non più solo buon cibo, motori e piastrelle, secondo lo stereotipo narrato dagli economisti degli anni 80. Ma ormai un nuovo caso di successo a livello internazionale per la capacità di cavalcare lo sviluppo tecnologico, tra Big Data, Internet delle cose, alta formazione professionale, Industria 4.0.

Presentare al mondo accademico la realtà nuova dell’economia emiliano romagnola è stato l’obiettivo dalla due giorni che ha radunato a Bologna, alla Fondazione Golinelli, quindici economisti provenienti dai principali atenei italiani ma anche da alcune delle più prestigiose università del mondo, tra le quali il Mit di Boston e Cambridge: Lukas Brun della Duke University (Usa), Annalisi Primi di Oecd di Parigi, Giancarlo Corò dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Vincenzo Colla, della Cgil, Keun Lee della Seoul National University (Korea), Clemente Ruiz Duran della National Autonomous University of Mexico, Jostein Hauge della Cambridge University (Uk), Jorge Mattar di Ecla (Mexico), Salvatore Capasso dell’Università di Napoli, Michael Priore del Massachusetts Institute Technology (Usa), Joan Trullen dell’Universidad Autonoma de Barcelona (Spagna), David Bailey e Lisa De Propris della Business School di Birmingham (Uk). Tutti chiamati a studiare un modello di sviluppo che ha superato i confini delle tradizionali eccellenze manifatturiere che hanno fatto la storia della regione, dalla food valley di Parma, alla motor valley di Modena e Bologna e al distretto delle piastrelle di Sassuolo.

I principali cluster produttivi restano colonne portanti dell’economia ma ora dialogano tra loro e con il mondo grazie a  un sistema coeso fatto di investimenti continui nei nuovi saperi, tra ricerca e avanguardie tecnologiche. Un sistema 4.0 che sta facendo scuola al resto del Paese. «In Emilia Romagna non facciamo più politiche regionali declinate su quelle nazionali», spiega Patrizio Bianchi, economista e assessore regionale al Lavoro e alla Formazione.

«Facciamo politiche locali – prosegue Bianchi – per piantare le pietre angolari di comunità che nascono già con una prospettiva globale». Grandi brand e grandi gruppi industriali, da quelli che svettano nella packaging valley di Bologna alla Ferrari di Maranello, mantengono così il ruolo di motori della ripresa. Ma lo sguardo adesso è rivolto al mondo con una nuova alleanza tra industrie, scuole e istituzioni.

La tradizionale forza del territorio data dalla coesione sociale di cooperativa memoria, dalle reti di subfornitura delle piccole e medie imprese e delle aziende artigiane non è stata affatto archiviata. La trasformazione del modello di sviluppo, ha spiegato Bianchi ai colleghi economisti, è avvenuta senza abiurare a una grande storia ma anzi facendone il collante di una nuova idea di crescita che ruota intorno al Patto per il lavoro sul quale la Regione è riuscita a far convergere tutti i protagonisti del sistema economico e sociale.
La visione è strategica, basata sul medio e lungo periodo, per portare la disoccupazione, entro il 2020, a quel tasso fisiologico che ha sempre caratterizzato il territorio; e si scommette sull’innovazione continua, partendo da un forte investimento sul capitale umano e sulla formazione.

Un cambiamento che attira sempre di più le grandi multinazionali. Come Philip Morris, che ha scelto il Bolognese per il primo stabilimento al mondo per la produzione di sigarette di ultima generazione, dopo aver individuato nel territorio la rete di subforniture e di scuole necessarie al suo sviluppo oltre a un solida sponda istituzionale. O come la maison Louis Vuitton che ha investito su Ferrara per le calzature extralusso Berluti perché ha trovato nella città emiliana l’alta formazione artigiana di cui aveva bisogno.

E’ il risultato di un intervento sistemico che ha messo insieme imprese, sindacati, istituzione e politica per dare corpo a una ripresa che non è più congiunturale ma strutturale, guidata dalla rivoluzione tecnologica e digitale in una regione che mantiene la sua storica vocazione alle esportazioni, che assorbono più del 70% della produzione manifatturiera. Il migliore esempio della nuova storia dell’economia emiliano romagnola è il polo dei Big Data che sta prendendo forma in questi mesi sotto le Due Torri, anche grazie a circa 40 milioni di finanziamenti del Miur arrivati a sostegno delle eccellenze bolognesi (15 in tutto, tra cui Cineca, Cnr, Enea e gli istituti nazionali di fisica nucleare e astrofisica, e ora il centro di elaborazione dati del Centro Europeo di Meteorologia in migrazione da Reading in Gran Bretagna). Qui viene processato il 70% del totale dei dati italiani (prima in classifica davanti a Milano), qui c’è lo snodo principale della dorsale Internet ad altissima velocità Garr, qui c’è una densità di ricercatori superiore alla media europea. Senza contare le tante eccellenze private dell’information technology e dell’elaborazione dati come Prometeia e Nomisma e colossi dell’e-commerce come Yoox Net a Porter.

La grande sfida resta una sola: quella di consolidare la competitività di una comunità che ha scommesso sulle competenze, sulle alleanze e sulla valorizzazione del patrimonio scientifico e tecnologico. Insomma, comincia da qui una diversa narrazione dell’Emilia-Romagna che si globalizza nelle competenze prima ancora che nel commercio.

Natascia Ronchetti