Spac, un veicolo low cost per capitalizzare e quotare le Pmi

Otto dei 31 collocamenti del 2017, per un miliardo di euro, riguardano questo strumento finanziario sconosciuto in Italia fino al 2011: 18 operazioni, 2 miliardi di euro, per far crescere Avio, Fila, Lu-Ve, Orsero e molte altre. Ma finora nessuna impresa emiliano-romagnola. 

Milano, 30 ottobre 2017

Otto quotazioni su 31 alla Borsa di Milano, nei primi dieci mesi del 2017, sono costituite da Spac, società finanziarie a caccia di obiettivi “industriali” da acquisire o con i quali fondersi. Hanno raccolto, al momento del collocamento, quasi un miliardo di euro (986 milioni), denaro fresco da parcheggiare al massimo per un paio d’anni come liquidità garantita, per essere poi investito in capitale di rischio. Ad acquisizione avvenuta la Spac si trasforma in società operativa, già quotata, solo cambiando denominazione; ovvero trasmette il suo status di società quotata al partner nel quale si incorpora. L’operazione si perfeziona in uno-due anni, per essere coerente con la tipologia di investimento: una sorta di start up finanziaria, finalizzata a un investimento produttivo.

L’acronimo Spac sta per Special Purpose Acquisition Company, sintesi efficace dello strumento: un “veicolo societario” che ha lo scopo di raccogliere capitale per acquisire aziende già esistenti e in fase di sviluppo, o almeno con potenzialità da concretizzare. La raccolta avviene tramite Ipo, un’offerta pubblica di azioni immediatamente seguita dalla quotazione. Lo strumento è snello e i costi di quotazione ridotti. Questo piace alle imprese che vogliono crescere senza cedere il controllo e senza doversi indebitare con le banche. E piace ai promotori delle Spac, perché partecipano all’investimento e, attraverso quote di capitale e la conversione di warrant emessi al momento del collocamento, “remunerano” la loro attività di scouting e il loro fiuto imprenditoriale. Per gli investitori, come sempre, i conti si fanno dopo, caso per caso. Ma si può affermare con ragionevole certezza che, per le loro caratteristiche, le Spac sono giustamente considerate un investimento a rischio contenuto, di durata definita (almeno nella fase pre-industriale) con elevate potenzialità di guadagno in caso di successo della business combination, cioè la vera e propria operazione societaria.

I promotori, o sponsor, rappresentano  o esprimono il management della Spac: sostengono tutte le spese per gestire l’operazione, lasciando intatto il capitale fino al momento della business combination. Al termine della sottoscrizione dell’Ipo lo sponsor mantiene una quota intorno al 20% del capitale della Spac, costituito da azioni e da warrant, in genere nel rapporto di 1:1. La sottoscrizione di una quota della Spac comporta sempre l’acquisto di una Unit, e cioè di un’azione accompagnata da un warrant, che sarà utilizzato per il concambio con la società target o nelle fasi successive.

Il fenomeno è recente in Italia: la prima Spac è del gennaio 2011 (Italy 1 Investments, che raccolse 150 milioni di euro e un anno e mezzo dopo acquisì Ivs, leader dei distributori automatici di cibi e bevande); l’ultima è del 19 ottobre scorso, con il collocamento da 150 milioni di euro di Industrial Stars of Italy 3. Il totale è di 18 Spac quotate, in genere nel segmento Aim, il “mercato alternativo” riservato alle piccole e medie imprese.

La raccolta complessiva in fase di collocamento, dal 2011 a oggi, supera di poco i 2 miliardi di euro. Come si è visto, la metà di questo importo si concentra nel 2017, nell’arco di sette mesi: da metà marzo, raccolta di 130 milioni di euro per la quotazione di Crescita, partecipata da operatori finanziari, professionisti d’affari, e DeA Capital, finanziaria del gruppo De Agostini; fino a Indstars 3, promossa da due veterani delle pur giovani Spac, nonché manager e finanzieri di lungo corso: Attilio Arietti e Giovanni Cavallini. Sono tra i non molti a poter già esibire il successo di due precedenti operazioni, avendo collocato nel luglio 2013 la prima Industrial Stars of Italy: raccolsero 50 milioni di euro e un anno e mezzo dopo, con un primo dettagliato “Documento informativo”, annunciarono l’accordo per la fusione con il gruppo Lu-Ve, leader negli scambiatori di calore. Accordo poi approvato dall’assemblea dei soci, perché l’ultima parola sul partner prescelto spetta agli azionisti, i quali anche individualmente hanno il diritto di recesso (tuttavia non esercitato da nessuno, nel caso specifico). Operazione conclusa nel luglio 2015 con la quotazione di Lu-Ve, perfettamente in linea con il biennio concesso a una Spac per realizzare l’operazione. Oggi Lu-Ve è scambiata agli stessi livelli della quotazione, ma ad inizio 2017 si era apprezzata del 25% in un anno e mezzo.

Anche l’altra operazione promossa da Indstars 2 è andata a buon fine, ed è stata perfino più rapida. Quotata nel maggio 2016 dopo aver raccolto 50 milioni di euro, la scorsa primavera ha perfezionato la business combination e ha incorporato il gruppo padovano Sit, azienda meccanica di precisione (“Sit-La Precisa”, si chiamava) fondata oltre 60 anni fa e tuttora gestita dalla famiglia de’ Stefani, oggi specializzata nei sistemi di controllo e regolazione per il riscaldamento domestico, la ristorazione collettiva, i misuratori di nuova generazione. Dal 20 luglio Sit è quotata a Milano, nel segmento Aim, e in tre mesi ha incrementato la quotazione dell’8%. Con un fatturato di 300 milioni di euro, ritmi di crescita del 10% l’anno e ben 75 brevetti depositati, Sit ha finora conseguito utili marginali: appena 1,7 milioni di euro nel 2016, che pure rappresentano un multiplo rispetto al 2015. È il perfetto identikit di una Pmi familiare che “sa fare” benissimo quel che produce, ma ha bisogno di ulteriori e diverse professionalità sul versante finanziario e strategico, a sostegno della crescita per linee interne ed esterne. Questa “inadeguatezza” dell’azienda target è ovviamente considerata positivamente, perché una situazione di partenza brillante, ma non su tutti i versanti, accresce le aspettative di rendimento degli investitori.

Nella fase di collocamento le Spac sono sottoscritte soprattutto da banche e investitori istituzionali, e l’andamento della quotazione nel biennio in cui sono praticamente inattive non offre grandi emozioni. Con qualche eccezione: Space 3, quotata dal 5 aprile 2017, in sette mesi ha incrementato del 25% il valore di borsa. Ma è anche un caso particolare, frutto non di un nuovo collocamento bensì dello spin off di 153 milioni di euro da Space 2, collocamento da 308 milioni di euro del luglio 2015, finora il più cospicuo ma solo parzialmente utilizzato per acquisire, con 155 milioni di euro, Avio. È perciò verosimile che l’incremento di valore del capitale “liberato” da quella operazione, incorpori le attese per una futura business combination altrettanto apprezzata dal mercato.

Sulle 18 Spac quotate nel corso degli anni, una decina hanno completato l’operazione industriale. Da quel momento ad essere quotate sono le imprese, che spesso cambiano il mercato di riferimento, passando dall’Aim a quelli maggiori: l’Mta, il mercato telematico, e perfino lo Star. Salvo un paio di casi, hanno tutte conseguito buone e perfino ottime performance. La già citata Ivs, il 35% in 5 anni; Sesa, specializzata nell’It, in quattro anni e mezzo ha triplicato la capitalizzazione; Italian Wine Brands è cresciuta meno, circa il 15% in due anni e mezzo; in due anni Fila ha raddoppiato; Orsero, il colosso mediterraneo della distribuzione ortofrutticola, è cresciuta del 20%, l’aerospaziale Avio del 48% in 27 mesi. Gpi, che offre servizi tecnologici in ambito sanitario, ha incrementato la quotazione del 6,7% in dieci mesi. Solo Zephiro, attiva nelle energie alternative, ha perso il 23% in due anni, nonostante l’apporto di 35 milioni di euro provenienti dalla Spac Greenitaly 1.

La ricerca della società target è la parte forse meno evidente, anche per ovvie ragioni di riserbo, ma più importante di tutta l’operazione. Quando Isi 1 si è fusa con Lu-Ve, i promotori hanno rivelato di aver avuto contatti non fugaci (e cioè scambi di informazioni, sottoscrizione di un patto di riservatezza, valutazioni e perizie fino alle soglie della due diligence) con ben 60 imprese di analogo calibro. Questo dà l’idea di quanta fame di capitale e di quanta volontà di fare impresa circolino nel mondo delle Pmi italiane.

In fase di collocamento la Spac deve indicare nel primo documento informativo, sia pure a grandi linee, il settore industriale, le caratteristiche del target potenziale, le aree geografiche d’interesse. In molti casi il settore è generico, con riferimento per esempio al Made in Italy, al lusso, alle cosiddette “3 effe” (food, fashion, furniture), che in fondo possono includere quasi tutto, fonderie e meccanica escluse. In alcuni casi, invece, il settore d’investimento è chiaramente delimitato all’origine: per esempio, Glenalta Food fin dal nome ha circoscritto la sua ricerca all’agroalimentare, e si è poi unita con il gruppo Orsero.

La business combination completa il percorso. Ma in teoria, se l’obiettivo non è perseguito, può anche essere sostituita dalla liquidazione. Il capitale della Spac non può restare a sonnecchiare per un tempo indeterminato. Dopo 24 mesi o è investito o è liquidato. E anche quando il target sia centrato, il singolo investitore può sempre tirarsi indietro ed esercitare il diritto di recesso, ovviamente ai prezzi di borsa del momento. Ad ogni nuova quotazione, ormai sempre più frequente, Barbara Lunghi, responsabile del mercato primario di Borsa Italiana, osserva che le caratteristiche del nostro tessuto economico rendono l’Italia il mercato di riferimento europeo delle Spac.

In tutto questo scenario che premia lo spirito imprenditoriale e le Pmi italiane di origine familiare, è naturale chiedersi quale ruolo giochino le imprese emiliano-romagnole, che dovrebbero essere fra i target più appetibili e ricercati, e anche fra i più disponibili e interessati. Non è così. Per il momento le Spac non vanno a caccia in Emilia-Romagna o, se lo hanno fatto (com’è probabile) non hanno trovato terreno fertile. Eppure è modenese purosangue Gino Lugli, ex manager di Ferrero, fondatore con Luca Giacometti di Glenalta Food (di cui si è già detto) e poi di Glenalta, quotata dal 19 luglio scorso dopo aver raccolto 98 milioni di euro da investire in un target generalista. Il milanese Giovanni Cavallini, fra molte altre cose, ha guidato per oltre dieci anni (come Ad e poi presidente) il gruppo reggiano Interpump, fondato negli anni ’70 da Fulvio Montipò. Infine Matteo Storchi, amministratore delegato ed erede di un altro gruppo meccanico reggiano, Comer, in un’intervista a Corriere Imprese Emilia-Romagna sulle prospettive di crescita del gruppo, ha ammesso di considerare la Spac un’ottima soluzione per portare in Borsa la sua azienda senza perderne il controllo.