Da Alitalia ad Almaviva, viaggio nell’Italia delle crisi

Sono più di 150 le grandi aziende dove sono in corso vertenze per i tagli occupazionali e la ristrutturazione del debito. In molti casi coinvolte multinazionali ansiose di delocalizzare. E torna la voglia di nazionalizzazione per evitare ripercussioni politiche.

 

Finalmente è stato varcato, l’ennesimo Rubicone della telenovela Alitalia, Alitalia-Sai anzi, come da ultima denominazione di questa sempiterna Araba Fenice _  e la metafora non è certo casuale _ del capitalismo all’amatriciana. Il 2 maggio 2017, quindi, passa agli archivi come la data della nuova richiesta di amministrazione straordinaria. E una prima analisi delle grandi crisi aziendali potrebbe partire proprio da qui, da un quadro giuridico che consente, quando non incentiva, morti improvvise e istantanee rinascite di imprese forse ormai incapaci di competere sui rispettivi mercati, che sia per l’incapacità dei manager o per altri motivi. Non a caso, dopo il primo salvataggio, il “modello-Alitalia” (di qua una bad company da mandare a morire con i debiti, di là una new company pronta a ripartire con le attività in bonis) veniva esplicitamente richiamato, un po’ in tutte le contrade del Belpaese, quando imprenditori di diversa stazza e natura sceglievano la via dei “fallimenti pilotati”.

Dal 2008, a risolvere il rebus dello storico vettore aereo nazionale, ci hanno provato prima Air France-Klm, poi la “cordata dei patrioti” messa insieme da Silvio Berlusconi e Intesa San Paolo, poi Poste Italiane. E infine loro, gli arabi di Etihad, poco più di due anni fa assestatisi al 49%, quota massima consentita dalla normativa europea. Magari, maggiore fortuna avranno i lontani cugini di Qatar Airways: nel 2016 questi, con un’operazione fotocopia, sono diventati soci dell’Aga Khan dentro il capitale di Meridiana, azienda concorrente il cui salvataggio, avvenuto anche grazie alla certosina opera di mediazione dell’ex ministro Federica Guidi, ha permesso una drastica riduzione dei 1634 esuberi dichiarati a fine 2014.

A sbarrare la strada ai possibili salvatori di Alitalia sono sempre stati o la politica (per i francesi), o  il corporativismo interno che ha portato al nefasto esito dell’ultimo referendum tra i 12300 dipendenti. E così Alitalia ha trascorso quasi un decennio perdendo a ogni esercizio contabile dai 200 milioni di euro in su, e ora la attende forse lo spezzatino, forse la Cassa Depositi e Prestiti tanto evocata da Susanna Camusso, forse qualche altro, intrepido player straniero. E non a caso per il titolo di commissario del nuovo interregno, apertosi con i famosi 600 milioni di prestito-ponte del governo che porta verso 8 miliardi il conto per i contribuenti nell’ultimo ventennio, siano stati in ballo i soliti manager, quegli habitués dei piani di risanamento di grandi aziende in dissesto più o meno conclamato.

Eh sì, perché i nomi che girano, nelle grandi crisi imprenditoriali del Belpaese, sono spesso gli stessi. La cordata dei patrioti del 2008 era composta da individui ai quali non è stata solo Alitalia a cagionare sventure. Uno è Salvatore Ligresti, ex patron di Fondiaria Sai; un altro era il lombardo Emilio Riva, scomparso nell’aprile 2014. Letteralmente padrone delle ferriere, stereotipo che incarnava perfettamente perfino nei modi, Riva era evidentemente affezionato alle privatizzazioni, perché con l’acquisto dell’ex Italsider dall’Iri il centro del suo intercontinentale impero divennero, nel 1995, le Ilva di Cornigliano e di Taranto. Certo gloria vi fu, in Puglia, ma nemmeno due anni prima di morire, Riva fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Procura tarantina per il maxi-disastro ambientale cagionato da quello che era il primo polo europeo nella produzione di acciaio. Poco c’è da aggiungere sulla nota vicenda, se non che sta in buona parte lì, in quella maxi-inchiesta penale deflagrata nell’estate 2012, la crisi dell’Ilva, che ovviamente si è intersecata alla problematica congiuntura del comparto siderurgico italiano e agli affanni macro-economici del Paese.

Infine, nel 2014, anche per l’Ilva è scattata l’ora dell’amministrazione straordinaria, affidata a una terna di commissari. Il 6 marzo, è stato l’ex ministro bolognese Piero Gnudi ad aprire, nello studio milanese del notaio Piergaetano Marchetti, le buste con le due miliardarie offerte per l’acquisto degli asset dell’azienda, che resta comunque capace di registrare oltre 2 miliardi di euro di ricavi annui. In entrambe le cordate, è segno dei tempi, un capofila indiano convive con una rappresentanza tricolore: da un lato il colosso ArcelorMittal si è alleato con il gruppo Marcegaglia, dall’altro Jindal South West si è associato ad Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cdp. La condicio sine qua non, ovvio, è il risanamento ambientale di un polo che a regime dovrebbe garantire 10 milioni annui di tonnellate di output, tra altiforni (due, forse tre) e forni elettrici. Non è per nulla chiaro, al contrario, il risvolto sui dipendenti, anche se è difficile sperare che l’Ilva del futuro necessiti degli 11mila attuali, di cui 3300 in cassa integrazione straordinaria da marzo (ma se ne potrebbero fermare presto altri).

L’Ilva era ed è, evidentemente, una fabbrica-città; del resto la formula è alquanto comune, nella siderurgia, un altro comparto sul cui declino sono state gettate colate di inchiostro. A Piombino, la vecchia Lucchini è stata traghettata verso l’Aferpi, nome che ha fin qui celato le teoriche ambizioni dell’imprenditore algerino Issad Rebrab e del suo gruppo, la Cevital. Anzi no, il traghettamento non è giunto in porto: a metà aprile il Mise ha annunciato una formale lettera di diffida verso Rebrab, che non avrebbe effettuato gli investimenti previsti dal piano di rilancio del 2015. A giorni, l’ultima mano: o Cevital rivitalizza con i contanti un impianto in cui i sindacati a inizio febbraio denunciavano “una produzione praticamente ferma”, dando concrete speranze ai circa 2mila dipendenti toscani; oppure il governo rientra in scena, con il già programmato prolungamento dell’amministrazione straordinaria e la possibile entrata in partita di altri gruppi.

Piombino, dunque, potrebbe presto contendere a un nugolo di altre piazze, spesso posizionate nel centro-sud e ancor più nelle isole, il titolo di capitale italiana della desertificazione industriale. Un’ottima candidata è la sarda Portovesme, dove nel 2012 l’Alcoa, due anni prima di abbassare la saracinesca, aveva spento quelle celle elettrolitiche di cui oltre 700 lavoratori attendono ancora oggi la riattivazione. Gli americani hanno regalato lo stabilimento a Invitalia, l’agenzia statale per l’attrazione degli investimenti esteri, che ha circa un anno per evitare lo smantellamento: dopo le interlocuzioni con colossi dell’alluminio come Glencore, le speranze maggiori sono ora riposte in un altro gruppo svizzero, la Sider-Alloys. Ma nel Sulcis delle miniere ormai esauste è tutta la filiera a soffrire, e in quella filiera sta l’Eurallumina: i suoi 300 lavoratori, la riaccensione, la attendono da un migliaio di giorni. Prima c’è da convincere gli ultimi proprietari, i moscoviti della Rusal, che l’energia arriverà a buon mercato, una missione affidata a una società della Regione, la Sfirs.

In breve, una costante delle crisi aziendali dell’industria pesante è che la Seconda Repubblica, ossia l’era delle privatizzazioni, non ha mai veramente funzionato. Tanto che, quando non invoca direttamente l’onnivora Cdp, come nel caso di Alitalia, la politica affida le speranze di rilancio alle sue sorelle o sorellastre, da Invitalia alle finanziarie di sviluppo regionali. I sindacati volentieri si accodano, in una reiterata professione di nostalgia verso i tempi dell’Iri e dello Stato imprenditore, che dominava la scena manifatturiera assieme a un manipolo di colossi privati avvolti all’establishment politico. Era inevitabile che questo sistema andasse in crisi quando c’era finalmente da confrontarsi con il libero mercato, e quando non era più ammissibile gettare fondi a pioggia nei salvataggi. Nella sicula Termini Imerese, per esempio, il progetto Bluetec non ha finora colmato il vuoto lasciato in quasi 1900 lavoratori da una Fiat che con Sergio Marchionne ragiona da vera multinazionale e non più da azienda assimilabile a una vecchia municipalizzata.

Non sono poche, le multinazionali il cui rapporto con l’Italia, presto o tardi, viene a deteriorarsi. Tra i 145 tavoli di confronto aperti al Ministero dello Sviluppo economico a giugno 2016, le imprese estere ne occupavano parecchi, dalla svedese Ericsson (che ha recentemente aperto la 14esima procedura di licenziamento collettivo, solo in questo caso per oltre 300 persone) su su fino alla connazionale Electrolux (che nella Penisola è di fatto in ristrutturazione da quasi una decade: oggi il gruppo ha qui 4500 dipendenti, per una parte dei quali scade quest’anno il piano anti-crisi del 2014). Se siete quelli del “mal comune mezzo gaudio”, noterete che il problema non tocca solo il Belpaese: Whirlpool ha appena conquistato la scena della campagna elettorale in Francia, con i fischi degli operai a Emmanuel Macron e gli applausi a Marine Le Pen. D’altra parte, la Whirlpool è la stessa azienda che in Italia ha sì ristrutturato pesantemente i siti produttivi, ma da gennaio ha pure rilocalizzato nel sito campano di Carinaro quelle catene di montaggio prima installate in Cina e Polonia.

Eh sì, perché pure in Italia il reshoring, almeno a parole, esiste. Prendete la Natuzzi, regina dei divani di Santeramo al Colle, capofila di uno dei tanti distretti industriali nazionali che hanno finito per auto-fagocitarsi, consegnandosi al lavoro nero selvaggio, a imprese fantasma da capo a piedi anzi, con un semi-invisibile contro-distretto in cui la lingua ufficiale è il cinese. La nausea da montagne russe della globalizzazione ha partorito i quasi 1700 esuberi annunciati da Natuzzi nel 2014, ma la cifra è stata poi ridotta dell’80%, perché dopo una trattativa-fiume al Mise lo storico patron Pasquale Natuzzi ha promesso di riportare in patria dalla Romania la fabbricazione di 33mila divani, nonostante l’almeno apparente gap di competitività nelle paghe orarie. Uno degli ultimi colpi di scena è stato quando, un anno fa, Natuzzi ha iniziato un road show lungo tutto il Meridione, offrendo un incentivo di 12mila euro per ciascuno dei suoi 340 cassaintegrati riassunti da imprese terze.

Quindi sì, è vero, il Sud soffre particolarmente, ma ha pure la capacità di rialzarsi dalle proprie cadute. Il Pastificio Rummo di Benevento, oltre 170 anni di storia alle spalle, è stato colpito duro dall’alluvione del 2015; e però, anche con un uso intelligente dei social network, ha trasformato i rovesci in un modo per incassare la solidarietà e il favore commerciale degli italiani, e a inizio aprile ha incassato il primo via libera della magistratura al concordato preventivo che dovrà ristrutturare i 97 milioni di debiti e salvare 130 famiglie. Il Sud, al momento, è anche uscito quasi indenne dalla vertenza Almaviva Contact, i cui dipendenti palermitani hanno nondimeno manifestato in prima fila al raduno nazionale per la Festa dei lavoratori di Piana degli Albanesi.

Contesto privilegiato di opere cinematografiche e letterarie sull’imperitura precarietà giovanile, il settore del customer care soffre notoriamente l’esasperazione delle gare al massimo ribasso, sovente ben oltre il dumping, e la parossistica tendenza alle delocalizzazioni; fenomeni che, nondimeno, non devono offuscare il pericolo della crescente disintermediazione digitale. Erano 2988, gli esuberi dichiarati da Almaviva a marzo 2016, sparsi tra Roma, Napoli e il capoluogo siculo. Il 31 maggio, a un passo dal realizzarsi brutalmente, i licenziamenti parevano sventati, grazie a un accordo mediato da Teresa Bellanova, sottosegretaria al Mise, e sottoscritto da tutti i sindacati confederali. L’intesa prevedeva diciotto mesi di ammortizzatori sociali, in attesa di un auspicato incremento dei volumi di lavoro. Ma in autunno ecco il nuovo choc: una seconda dichiarazione di oltre 2511 esuberi, che secondo le cronache l’azienda avrebbe poi addirittura giustificato con l’esito del referendum costituzionale.

Da lì, la vicenda ha assunto aspetti ancor più singolari, perché per le tre sedi coinvolte gli esiti della vertenza sindacale sono stati diversissimi. Se a Palermo 700 dipendenti su oltre 3mila sono ancora con il fiato sospeso, tra l’annuncio di nuove commesse e il trasferimento di un drappello dentro il concorrente Exprivia, a salvarsi in pieno è stata per ora Napoli: lì i lavoratori hanno accettato la cigs al 70%, un taglio del Tfr e un congelamento degli scatti di anzianità; in cambio, udite udite, di una compartecipazione agli utili una volta che si ritorni eventualmente alla redditività.

La crisi, a volte, rinforza la tolleranza dei sindacati e la creatività dei manager, che certo servirà in dosi massicce nella Capitale, dove invece la serrata ha lasciato a piedi 1666 persone, in buona parte 40-50enni con titoli di studio rilevanti. Per loro non c’è nemmeno il conforto della magistratura del lavoro di Roma, che il 22 aprile ha rigettato il ricorso presentato dalla Slc-Cgil contro i licenziamenti unilaterali. Il governo, per bocca del ministro Poletti, e la Regione Lazio hanno promesso di trasformare Almaviva Roma in “un laboratorio per un intervento coordinato” volto a un felice turnaround occupazionale. Significa, in pratica, mettere in campo degli incentivi per avviare i neo-disoccupati all’auto-imprenditorialità o alla mobilità territoriale. Bello a dirsi e difficile a farsi, perché non è che tutti i disoccupati possano cambiare città con uno schiocco delle dita o ripartire fondando una start up.

 

Nicola Tedeschini