In nove anni di recessione bruciato il 25% del made in Italy

Siderurgia, costruzioni e automotive i settori più colpiti. Nella prima fase della crisi penalizzate le aziende esportatrici, poi la scure si è abbattuta su quelle più legate al mercato interno. Il rischio di “messicanizzazione” se le multinazionali sceglieranno di lasciare il nostro Paese per cercare localizzazioni più competitive. L’aiuto di Draghi e della svalutazione strisciante del dollaro

 

“I fenomeni che oggi osserviamo nella siderurgia rischiano di essere gli stessi che in futuro vedremo nel resto della manifattura”. Allora come oggi sottosegretario allo Sviluppo economico, il 31 maggio 2016 Ivan Scalfarotto non utilizzò il proverbiale ottimismo dei politici, quando, ospite a Milano dell’assemblea annuale di Federacciai, commentò lo stato dell’arte di uno dei comparti industriali più controversi del Belpaese. In effetti, nella narrazione contemporanea della siderurgia tricolore sono concentrati un po’ tutti gli archetipi della recessione: la concorrenza sleale della Cina; i problemi, grandi e diversificati, delle imprese-guida (Ilva, Aferpi-ex Lucchini, Stefana, Thyssenkrupp); quella difficoltà tipicamente italica di adattarsi ai tempi che cambiano. C’era e c’è, infine, la proverbiale incapacità di fare sistema: a latere dell’assemblea persino il presidente della Federacciai Antonio Gozzi, da cui ti aspetteresti una certa affezione al laissez-faire, denunciava “il brutale spontaneismo di mercato” che presiede all’aggiustamento strutturale del settore.

E dire che, ancora nel 2011, la produzione degli altiforni tricolori era salita a 28,73 milioni di tonnellate annue, dai 25,75 del 2010; ma con il 2012, una data che ovviamente è facile associare all’estate caldissima dell’Ilva, è iniziata una paurosa discesa, infine parzialmente invertita solo dallo scorso anno. Per i primi tre mesi del 2017, il dato è di 6,1 milioni di tonnellate, che consentirebbero di ritornare, a fine esercizio, oltre quota 24 milioni. Insomma, la siderurgia appare come uno di quei settori che, tra le due fasi della double-dip recession, hanno probabilmente sofferto la seconda ancor più della prima.

L’effetto sul sistema industriale nazionale di questa recessione a doppia mandata è stato analizzato, fra gli altri, in un saggio pubblicato lo scorso anno sui Quaderni di economia e finanza della Banca d’Italia, a firma di Andrea Locatelli, Libero Monteforte e Giordano Zevi. Con il primo sprofondamento del 2008-2009, argomentano i tre analisti, hanno pagato dazio soprattutto le imprese più esposte ai mercati internazionali, che in quel periodo hanno nel complesso visto calare di oltre 12 punti percentuali la propria capacità produttiva. La crisi dei debiti sovrani datata 2011-2013, invece, ha colpito duro sulle imprese non esportatrici, quelle votate al mercato domestico (-13% di media).

Se l’acciaio nazionale, dunque, ancora vive e lotta tra mille problemi, esistono settori per cui è già lecito parlare, più che di crisi, di una vera e propria falcidie imprenditoriale e salariale. Fin troppo facile pensare al mattone. L’ultimo report congiunturale dell’Ance, il braccio edilizio di Confindustria, dice che nel 2016, lungo tutta la penisola, gli investimenti in costruzioni residenziali e non residenziali sono stati pari a 125 miliardi di euro, al netto delle spese registrate per i passaggi di proprietà. Significa un aumento dello 0,3% rispetto ai dodici mesi precedenti, prima inversione di rotta dopo anni di tonfi clamorosi, per recuperare i quali, anche qui, ci vuole tuttavia un cambio di passo molto più deciso. Perché dal 2008, dice sempre l’Ance, i posti di lavoro eliminati sono ben 600mila. Per il 2017, se le prime stime indicavano addirittura un nuovo arretramento del pil del settore, le ultime proiezioni parlano invece di un nuovo e un po’ più consistente balzo in avanti (+0,8%).

Le speranze dei costruttori sono ora affidate soprattutto alle riqualificazioni degli edifici esistenti, una di quelle formule mediatiche che in teoria mettono d’accordo tutti, perfino i sindacati, oltre ovviamente agli ambientalisti. Legambiente ha creato assieme Cgil, Cisl e Uil un Osservatorio specifico per il settore edile, che ogni dicembre partorisce un dettagliato rapporto congiunturale. “Non è uno slogan o un sogno quello di far tornare il settore delle costruzioni al peso che storicamente ha sempre avuto per l’economia e il lavoro in Italia”, si leggeva già nella Premessa all’edizione di fine 2015. “La terapia della rigenerazione può funzionare in Italia proprio perché sono notevoli i cambiamenti già avvenuti. In questi anni di crisi il settore delle costruzioni non si è infatti solo ridimensionato ma ha anche spostato il proprio baricentro verso il recupero che oggi rappresenta circa il 70% del mercato complessivo”. Dalla Triplice sindacale arrivano ampie lodi all’Unione europea, vista sia come il faro dei mutamenti legislativi che dovrebbero traghettare definitivamente l’Italia nell’era del green building; sia, ovviamente, come il primo finanziatore, soprattutto grazie al Piano Juncker. Le speranze confindustriali, più nel breve termine, passano invece per la manovra finanziaria 2017, atto d’addio del governo Renzi, che, oltre a confermare gli incentivi fiscali per gli interventi di messa in sicurezza sismica e di efficientamento energetico, ha istituito il maxi-fondo per il cosiddetto piano “Casa Italia”, con una dotazione di 47 miliardi di cui 8,5 da spendere teoricamente entro il 2019.

Di certo, l’affezione alla politica del mondo edile pare quasi patologica; a essa si aggiungono un rapporto alquanto critico con il mondo bancario e un contesto di mercato troppo simile al far West. Solo quella quindicina di big nazionali, i general contractor tricolori, nuota nell’oceano azzurro, facendo cassa grazie alle commesse estere; e pure lì, vedi le cooperative emiliane, qualcuno ha dovuto alzare bandiera bianca. La fragilità economica è qualcosa di lapalissiano, stanti queste condizioni di sistema; che, se ci pensate bene, sono pressoché le stesse del comparto dell’autotrasporto. Dove si può addirittura parlare di collasso, metaforico e purtroppo pure fisico, data la frequenza con cui l’Italia si è purtroppo abituata ai crolli di ponti e cavalcavia.

Il problema principe è che, in un contesto recessivo, nei Paesi sud-europei il giro d’affari di tutto il macro-settore trasporti e logistica diventa iperelastico rispetto al pil, mentre l’elasticità è estremamente inferiore in un panorama espansivo. Ovvero: gli studi di Confcommercio, l’ultimo dei quali presentato al Forum internazionale di Conftrasporto tenutosi in ottobre a Cernobbio, dicono che per ogni punto percentuale di ricchezza nazionale perduta, il volume di traffico merci cala addirittura del 3,5%. Dal massimo del 2007, abbiamo perso circa il 20%. La logica conseguenza è la maniacale battaglia delle associazioni di categoria per la riduzione dei costi operativi. E in una giungla quotidiana di battaglie lobbistiche continuano a spuntare muri e barriere. Persino operatori di grossa taglia non sono riusciti a sopravvivere, vedi il recente caso di Artoni, o lo hanno fatto al prezzo di pesantissime ristrutturazioni.

La metalmeccanica italiana, intanto, è alle con il fenomeno noto come la “messicanizzazione”. Tra relazioni sindacali bollenti e processi di innovazione non sempre facili da attuare, solo gli ottimisti parlano di un “cambio di paradigma in corso”, per usare un’altra formula trita e ritrita. In realtà molte multinazionali riducono o azzerano la propria presenza nella penisola, dalla Haier alla Saeco, dalla Fiat alla Ericsson. Alberto Dal Poz, vicepresidente di Federmeccanica, nel commentare l’indagine congiunturale diffusa dall’associazione per il 2016 ha ammesso che “niente sarà più come prima”, e che risulta “difficile un aumento dell’occupazione con questi tassi di crescita”. L’annata si è conclusa con un’ascesa dell’output tricolore di due punti percentuali, avvenuta tuttavia dopo trimestri altalenanti, nell’ultimo dei quali la produzione era ancora di circa il 25% inferiore rispetto al primo quarto del 2008. I posti di lavoro sono appunto scesi, quanto meno nelle aziende con oltre 500 dipendenti (-0,8%).

La morale, spiega un altro saggio di Palazzo Koch a firma ancora di Zevi e Monteforte, è che tra il 2007 e il 2013 l’Italia ha lasciato per strada, a seconda del metodo statistico impiegato, dagli 11 ai 17 punti di capacità produttiva totale. E, siderurgia a parte, a pagare pegno sono stati in particolare i comparti del carbone e della gomma-plastica (-9,3%); quello della lavorazione dei minerali non metalliferi (-20,8%); la filiera del legno e della carta (-16,9%); l’industria del cuoio e dell’abbigliamento (-18,9%). Questa è già storia economica; sulla contemporaneità, ovvero sulle ultimissime annate, l’analisi ovviamente non si spinge, ma nelle cronache giornalistiche dell’ultimo quadriennio non è difficile trovare ripetuti casi di aziende afferenti ai sopra menzionati settori alla prese con stati di crisi perduranti o incipienti. Prendete ad esempio la produzione industriale del tessile: a fine 2011, era calata di circa 15 punti rispetto ai livelli di un anno prima, livelli poi recuperati a inizio 2013; e da lì gli alti e bassi sono proseguiti. Il fatturato aggregato ha seguito una dinamica non dissimile: sceso da 54 a 46 miliardi di euro nel 2009, ha poi toccato un nuovo picco attorno a quota 53 nel 2011, e da lì ha visto un ulteriore calo, prima dell’assestamento.

E dire che, per un settore come il fashion tricolore, la Cina è una potenza amica, vista la crescente passione della sempre più folta classe media di Pechino e Shanghai per la moda italiana, considerata uno status symbol. I problemi vengono dall’Occidente, tra le incertezze dell’Unione Europea, la Brexit e l’annunciato neo-protezonismo di Trump. Altri distretti industriali, dai calzaturieri del Veneto ai pellettieri Toscana, continuano a lamentare i danni cagionati dalle sanzioni decise da Ue e Usa contro la Russia nel 2014; qualche cluster, come gli orafi del vicentino e dell’alessandrino, dipende dai venti che soffiano in Medio Oriente. Un ultimo caso interessante, piccolo ma significativo, è il distretto del mobile imbottito di Basilicata e Puglia, per decenni vissuto sulle svalutazioni della lira e che ha trovato nuova linfa nell’export verso il Nord-America quando, con il quantitative easing lanciato dalla Bce di Mario Draghi, l’euro ha cominciato a perdere terreno sul dollaro.

Le vicende del tessile-abbigliamento e degli altri comparti appena citati, in definitiva, portano ad almeno due conclusioni. La prima: una larga parte dell’Italia manifatturiera non è più in uno stato di recessione conclamata, e tuttavia vede ancora le linee dei grafici andare a zig zag, per cui è difficile parlare di vera ripresa. Secondo: gli equilibri geo-economici globali, banale dirlo, troppo spesso restano determinanti per le nostre industrie, le quali, con i cronici problemi di competitività dei fattori, non possono contare soltanto sull’asserita qualità della propria offerta merceologica. L’aiuto di circostanze esogene fa insomma ancora comodo, che si tratti delle fluttuazioni valutarie favorevoli, delle “giuste” altalene delle materie prime o di un contenimento della conflittualità armata nel mondo.

 

Nicola Tedeschini