Per le partecipate degli enti locali comincia una nuova Hera

Mentre la riforma infinita delle pubbliche amministrazioni sembra prossima al traguardo, Rimini vende la “quota libera” della multiutility (il grosso è vincolato fino al giugno 2018 nel patto di sindacato). È loccasione per un bilancio del riassetto e delle razionalizzazioni annunciate, ma in gran parte ancora sulla carta

 

Più che la legge, potrà il bisogno. Il bisogno di liquidità, l’urgenza di ridurre la spesa, soprattutto dei Comuni. La legislatura è trascorsa tra un annuncio e l’altro dell’imminente riordino delle partecipazioni societarie degli enti pubblici, attraverso cessioni, liquidazioni, riduzioni, razionalizzazioni di migliaia di partecipazioni azionarie. Governo, Parlamento e Regione hanno proposto e approvato piani e norme; ognuno, però, al momento di passare all’azione, ha ceduto il passo per guadagnare tempo: “prego, prima lei”; “non sia mai, dopo di lei”. Di concreto si è visto poco. Subito dopo Pasqua, invece, il Comune di Rimini ha annunciato la cessione di 3,7 milioni di azioni Hera. Solo una piccola quota – il 15% – delle oltre 24 milioni di azioni possedute attraverso Rimini Holding, pari all’1,6% del capitale sociale della multiutility; quota che ogni anno vale 2 milioni di euro di dividendo.

Il Comune di Rimini ha bisogno di liquidità, e la cessione porterà in cassa, al netto dei costi dell’operazione, nove milioni di euro. Un paio serviranno a ridurre la quota residua del mutuo di Rimini Holding con Monte dei Paschi di Siena, garantito dal Comune, sottoscritto proprio per ripianare debiti pregressi. Il resto sarà conferito al Comune come dividendo straordinario, probabilmente accresciuto dalla liquidità di cui la holding dispone. Sarà utilizzato per varie opere pubbliche, in particolare per alcune stazioni del Trc, il trasporto rapido di costa, in costruzione da 5 anni: una sorta di metropolitana fra Rimini e Riccione, che un giorno si prolungherà da un lato verso la Fiera di Rimini, dall’altro verso Cattolica.

Ma perché, se Rimini ha bisogno di liquidità, vende appena un sesto della partecipazione di Hera, la multiutility che ha superato da tempo i confini regionali, è un colosso da 2 miliardi e mezzo di patrimonio netto, in 5 anni ha moltiplicato di oltre due volte e mezzo la quotazione di borsa, e oggi capitalizza 4 miliardi di euro? Perché di più, per un anno ancora, non può vendere. O quasi: avrebbe potuto arrivare a 5,5 milioni, la cosiddetta “quota libera” dal patto di sindacato, che impedisce ai soci, fino al 30 giugno 2018, di cedere la partecipazione. Proprio nel 2015, quando si cominciò a parlare seriamente di ridurre le partecipazioni degli enti locali, e Bologna sembrava dovesse fare da capofila per la cessione delle azioni Hera possedute dai comuni emiliano-romagnoli, avvenne una clamorosa marcia indietro, e fu addirittura rinnovato per tre anni il patto di sindacato fra 118 soci pubblici, possessori del 51,3% del capitale sociale.

Alcuni soci possiedono ulteriori quote rispetto a quelle conferite nel patto di sindacato, perciò si parla di “quote libere”: nel luglio 2016 ne sono state vendute per oltre l’1% del capitale, da 12 comuni. In realtà, anche per enti locali indebitati e a corto di liquidità, il possesso di Hera non rappresenta affatto una delle tante partecipazioni inutili o dannose. Anzi, è un investimento “sicuro”, che ogni anno si rivaluta e genera interessi in forma di dividendi. Da tempo Hera è gestita secondo i criteri di efficienza propri di un’azienda privata.

Il vero problema, semmai, è quello delle aziende in house, che svolgono servizi per conferimento diretto e non attraverso una gara. Questo tipo di società, nei decenni scorsi, ha consentito ai comuni di acquisire competenze e specializzazioni, ma non l’efficienza necessaria per sopravvivere senza generare perdite. Piccoli monopoli locali che, anche in caso di buona gestione (esempi non mancano) e in assenza di malversazioni, non conoscono il significato della parola concorrenza. Lì sta il vero nodo, lì si gioca la credibilità delle intenzioni, la differenza tra chi farà sul serio e chi spera di cavarsela con l’ennesimo maquillage.

Il riordino è un tassello della riforma delle pubbliche amministrazioni, la cosiddetta legge Madia 124 del 2015, che era stata anticipata – per quanto riguarda le partecipate degli enti pubblici – dalla legge di stabilità dello stesso anno e dal censimento del commissario alla spesa pubblica, Carlo Cottarelli. Ma i due anni necessari per la più ambiziosa “grande riforma” hanno paradossalmente bloccato il processo. Quando sembrava tutto pronto (ma non tutto ben fatto) la Corte costituzionale, lo scorso autunno, è intervenuta – accogliendo il ricorso del Veneto – contro la legge delega, e indirettamente contro i decreti delegati nel frattempo adottati dal governo. La Corte ha bocciato il centralismo della riforma, che considerava adempiuti i doveri di leale collaborazione tra governo ed enti locali, con una semplice consultazione da parte del governo anziché con una più impegnativa intesa Stato-Regioni, nelle materie di cosiddetta competenza concorrente.

Così è stato necessario correggere tutti i decreti delegati della riforma, acquisire l’intesa Stato-Regioni e sottoporre le modifiche al parere del Parlamento e del Consiglio di Stato. Solo il 3 maggio scorso Camera e Senato hanno licenziato il parere sulle società controllate dagli enti locali, in questo caso riducendo un po’ il potere riconosciuto al presidente della Regione di discostarsi dai criteri fissati per legge, e dichiarare una partecipazione strategica, e perciò intoccabile, senza doverne rendere conto a nessuno. L’ultima parola su questa deroga, che sarà probabilmente ridimensionata, spetta ora al governo.

I criteri per lo sfoltimento delle partecipate sono del resto noti da tempo, e comportano, tra l’altro, la liquidazione o l’accorpamento delle partecipazioni in cui i dipendenti siano in numero inferiore agli amministratori, o la cui attività si sovrapponga a quella di altre partecipate, o i cui ricavi nell’ultimo triennio siano stati inferiori al milione di euro, ovvero i bilanci siano stati in perdita in quattro degli ultimi cinque anni.

Subito dopo le elezioni regionali dell’autunno 2014 l’Emilia-Romagna ha iniziato ad occuparsi del riordino (almeno sulla carta) delle partecipazioni, avvalendosi del Libro bianco sui quattro pilastri della governance, elaborato dal dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bologna. A primavera 2016 ha presentato il piano. La Regione ha partecipazioni rilevanti in sette società in house e possiede quote (talvolta marginali) in altre diciassette società, aeroporti e fiere comprese.

Il piano prevede la riduzione da 7 a 4 delle società in house, con due accorpamenti e la riqualificazione degli obiettivi societari; una sola dismissione marginale e un risparmio stimato in 5 milioni di euro l’anno. Cup 2000 e Lepida, accorpate, dovranno sviluppare l’Ict regionale (le prenotazioni del servizio sanitario saranno svolte da un consorzio fra le stesse Ausl); Ervet e Aster si occuperanno di ricerca industriale e attrazione degli investimenti. Ma far quadrare i conti non sarà facile: Apt Servizi resta intatta, e il suo marketing territoriale al servizio degli operatori turistici è finora costato alla regione (socio al 50% ma contributore unico) 10 milioni di euro l’anno; la rete ferroviaria regionale gestita da Fer, quasi interamente posseduta, assorbe oltre 100 milioni di euro l’anno.

Delle partecipazioni ordinarie ne resteranno una decina. Due sono già state liquidate, per altre cinque si provvederà. Ma si tratta di quote piccole, dai centri termali a quelli agro-alimentari, incluso il Caab di Bologna, nonostante il suo coinvolgimento nel parco agroalimentare Fico, la cui inaugurazione è prevista in autunno. Delle dieci sopravvissute, uno è il gestore del trasporto regionale Tper, al quale la regione versa un contributo di 6 milioni di euro l’anno. Quattro partecipazioni minori riguardano le fiere di Bologna, Parma, Piacenza e Rimini, con l’obiettivo però di un’unica holding che gestisca tutti i quartieri fieristici. Un’ipotesi antica e faticosa, finora impedita dai campanili.

Al di là del ruolo di coordinamento della Regione, quando si parla di fiere, aeroporti o multiutility, le partecipazioni che contano sono sparse tra i comuni, talvolta le province, spesso le Camere di commercio. Perciò bisogna tornare al censimento del commissario Cottarelli, che in Emilia-Romagna contò 714 partecipazioni degli enti locali, 183 delle quali in società non operative, o con un patrimonio netto negativo o pari a zero, o delle quali fossero ignote (almeno a Roma) attività e bilanci. Di 531, invece, si conosceva quasi tutto, ma era quasi impossibile confrontarle, per la totale disomogeneità delle dimensioni, delle quote, dell’attività. Basti dire che si va dai 700 euro di patrimonio netto della coop di consulenze turistiche di Castrocaro (capace tuttavia di perdere in un solo anno il quadruplo del patrimonio) ai patrimoni miliardari delle multiutility quotate: la già ricordata Hera e la poco più piccola Iren. Proprio la partecipazione a questi due colossi, tuttavia, ha alimentato la proliferazione di piccole holding finanziarie prive di dipendenti, con l’unico scopo di incassare i dividendi, reinvestirli in azioni o altri titoli, oppure girarli al comune.

C’è poi l’intricata foresta delle forniture di servizi, dalle attività di assistenza, a quelle educative, culturali, di promozione turistica o agroalimentare, e perfino di ricerca scientifica. L’efficienza non è una rarità, ma neppure rappresenta la regola. Le 531 società, cooperative e consorzi dei quali erano noti i bilanci (il 10% di quelle censite in Italia), sono state suddivise in quattro fasce dimensionali in base al patrimonio netto, i cosiddetti “mezzi propri”: fino a 10mila euro, da 10 a 100mila, poi fino al milione di euro, infine oltre il milione. Il dato patrimoniale è stato incrociato con i ricavi netti (o la perdita) per elaborare il Roe (Return on Equity), l’indicatore di efficienza rappresentato dal rapporto percentuale fra il risultato economico e l’investimento.

L’elaborazione mostra che le inefficienze più diffuse si trovano nelle realtà più piccole. Le 144 partecipazioni nelle prime due fasce di patrimonio netto, e cioè fino a 100mila euro, generano perdite superiori ai 335mila euro, con un Roe negativo del 5,7% (che crolla al -35% per la fascia fino a 10mila euro di patrimonio netto).

Le 157 società della fascia fra 100mila e 1 milione di euro generano invece ricavi netti per 1,6 milioni di euro, ma l’indice di efficienza è abbastanza contenuto (2,6%). Lo stesso indice è quasi doppio (4,7%) fra le 230 imprese con un netto patrimoniale superiore al milione di euro (in totale 10,5 miliardi) il cui risultato complessivo supera il mezzo miliardo di euro. Un drappello di 20 società, di tutte le dimensioni, è stato capace di bruciare in un solo anno l’intero patrimonio netto o addirittura un suo multiplo fino a 7 volte.

Per altre 110 il Roe è negativo, ma non superiore al 100%. Tre società emiliano-romagnole, due delle quali parmigiane, sono fra le venti con maggiori perdite in valore assoluto: Stt, anziché valorizzare il territorio ha perso 28 milioni di euro con un Roe negativo prossimo al 500% (ma l’anno successivo è tornata in utile); Parma Infrastrutture dovrebbe gestire il servizio idrico, invece prosciuga risorse: -23 milioni di euro in due anni (Roe -22%). Alle 135 partecipate in sostanziale pareggio ne corrispondono 147 con un Roe compreso fra l’1 e il 10 per cento, mentre un gruppo consistente, 119 partecipate di tutte le dimensioni, supera il 10% nel rapporto fra risultato e patrimonio netto.

Angelo Ciancarella